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Medico senza laurea: compie un unico reato, anche se lavora presso differenti strutture sanitarie

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 Con la sentenza n. 48862 dello scorso 25 ottobre, la I sezione penale della Corte di Cassazione, chiamata a risolvere un conflitto positivo di competenza in relazione a due procedimenti penali instaurati presso due differenti sedi giudiziarie, ha statuito che l'imputato – un medico che, senza laurea, aveva esercitato arbitrariamente la professione sanitaria in diverse strutture ospedaliere, pubbliche e private – avesse compiuto un solo reato, giacché nell'esercizio abusivo della professione, reato eventualmente abituale, la reiterazione degli atti tipici dà luogo ad un unico reato se l'attività dell'agente, sorretta da unico elemento soggettivo, è diretta all'esercizio della medesima professioneil mutamento di titolo dell'attività professionale(da lavoro dipendente a collaborazione autonoma) o la mera diversità soggettiva della controparte del relativo rapporto non incidono sull'unitarietà del momento volitivo, che sorregge una condotta univocamente orientata dal lato funzionale e finalistico".

In particolare, un medico era imputato, dinanzi al G.u.p. del Tribunale di Vicenza, per i reati di cui all'art. 348 c.p., e art. 640 c.p. comma 2, n. 1), per aver esercitato abusivamente la professione medica, nel periodo compreso tra il novembre 1997 e il marzo 2014, lavorando come ginecologo-ostetrico, senza essere laureato né abilitato e per aver conseguito un profitto ingiusto, pari agli emolumenti stipendiali indebitamente percepiti dalla stessa struttura sanitaria pubblica.

Nei confronti del medico procedeva altresì il Tribunale di Venezia, ove l'imputato rispondeva di lesioni colpose gravissime ai danni di soggetto neonato e - nuovamente - di esercizio abusivo della professione in relazione all'attività libero professionale svolta, dal giugno 2014 al febbraio 2015, presso la struttura sanitaria privata ove si era consumato il fatto di lesioni. 

 La difesa del camice bianco denunciava la coesistenza dei procedimenti, a titolo di conflitto positivo, al G.u.p. del Tribunale di Vicenza.

Nel trasmettere la denuncia alla Corte di Cassazione, il G.u.p. osservava, ai sensi dell'art. 30 c.p.p., comma 2, come dovesse in realtà escludersi l'esistenza del conflitto positivo.

Secondo il Giudice, infatti, il delitto di esercizio abusivo della professione, quale reato eventualmente abituale, si consuma nel luogo e nel tempo di realizzazione dell'ultima condotta tipica, reiterativa della serie unitariamente lesiva del bene giuridico tutelato, sorretta da dolo unitario: in relazione al caso di specie, il dolo sarebbe venuto meno a seguito del pensionamento del sanitario e la correlata cessazione del rapporto di impiego con il Servizio sanitario nazionale; la successiva intrapresa di un nuovo rapporto di collaborazione professionale, con soggetto privato, avrebbe integrato una nuova determinazione a delinquere, idonea a configurare un distinto reato.

Il Giudicante rimettente sosteneva, inoltre, che anche se si fosse propeso per l'unitarietà del reato di cui all'art. 348 c.p., la competenza in ordine a tutte le imputazioni si sarebbe comunque radicata nel foro di Vicenza, luogo di consumazione del più grave dei reati connessi, ovvero quello di truffa aggravata.

La Cassazione rileva l'esistenza del conflitto positivo, limitatamente al reato di esercizio abusivo della professione medica.

I Supremi Giudici ricordano che nell'esercizio abusivo della professione, reato eventualmente abituale, la reiterazione degli atti tipici dà luogo ad un unico reato se l'attività dell'agente, sorretta da unico elemento soggettivo, è diretta all'esercizio della medesima professione (in questo caso, l'azione lede in modo unitario il medesimo bene giuridico e il momento consumativo dell'unico reato coincide con l'ultimo atto della serie, vale a dire con la cessazione della condotta); diversamente, si è in presenza di una pluralità di reati se le professioni esercitate sono molteplici.

In relazione al caso sottoposto alla loro attenzione, gli Ermellini evidenziano che le condotte di cui è accusato il medico integrano effettivamente un unico reato, giacché all'imputato si addebita l'esercizio, durato pressoché ininterrottamente per oltre quindici anni, di una professione (sempre la medesima, quella del medico) per la quale si assume che egli non avesse conseguito la prescritta abilitazione. Ad una differente conclusione non può arrivarsi considerando il mutamento di titolo dell'attività professionale (da lavoro dipendente a collaborazione autonoma) o la mera diversità soggettiva della controparte del relativo rapporto, dal momento che siffatte circostanze non incidono sull'unitarietà del momento volitivo, che sorregge una condotta univocamente orientata dal lato funzionale e finalistico.

In relazione alla questione di competenza, la Cassazione afferma la competenza del Tribunale di Vicenza, luogo in cui si è consumato il reato più grave, ovvero la truffa aggravata (reato connesso ex art. 12 c.p.p., comma 1, lett. b), perché in concorso formale con quello di esercizio abusivo della professione); il Tribunale di Venezia, invece, rimane competente per il solo reato di lesioni gravissime, non legato ai rimanenti da alcuna delle ragioni di connessione.

 

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