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Lidia Poët (Perrero, 26 agosto 1855 – Diano Marina, 25 febbraio 1949) è stata la prima donna ad entrare nell'Ordine degli Avvocati in Italia.
Valdese, nata da genitori benestanti della Valle Germanasca, trascorse l'infanzia a Traverse di Perrero dove era nata per poi trasferirsi adolescente a Pinerolo presso uno dei fratelli maggiori, Enrico, di professione avvocato. Qui conseguì il diploma di maestra e, dopo un periodo ad Aubonne, sul lago Lemano, per imparare il tedesco e l'inglese, tornò a Pinerolo per iscriversi, nel 1878, alla facoltà di legge dell'Università di Torino. Si laureò in giurisprudenza il 17 giugno 1881 dopo aver discusso una tesi sulla condizione femminile nella società e sul diritto di voto per le donne. Nei due anni seguenti fece pratica legale presso l'ufficio dell'avvocato e senatore Cesare Bertea e assistette alle sessioni dei tribunali. Superati gli esami per diventare procuratore legale, chiese di entrare nell'Ordine degli Avvocati di Torino. La richiesta suscitò polemiche, ma non essendoci un divieto specifico, fu accolta a maggioranza: Lidia Poët divenne la prima donna iscritta all'ordine il 9 agosto 1883.
L'iscrizione non piacque al procuratore generale che fece denuncia alla Corte d'appello di Torino. Nonostante le repliche e gli esempi di donne avvocate in altre nazioni (come Clara S. Foltz), il procuratore generale ribadì con convinzione il divieto per legge per le donne di entrare nell'ordine. L'11 novembre 1883 la Corte di Appello accolse la richiesta del procuratore. Lidia Poët presentò un ricorso articolato alla Corte di Cassazione che però confermò tale decisione.
Il dibattito in Italia ebbe un lungo seguito con 25 quotidiani italiani sostenitori dei ruoli pubblici tenuti da donne e solo tre contrari.
Lidia Poët non poté quindi esercitare a pieno titolo la sua professione, ma collaborò con il fratello Enrico e divenne attiva soprattutto nella difesa dei diritti dei minori, degli emarginati e delle donne. Sostenne la causa del suffragio femminile. Non si sposò e non ebbe figli.
Nel 1883 partecipò al primo Congresso Penitenziario Internazionale che si tenne a Roma e nel 1890 venne invitata come delegata a San Pietroburgo al quarto Congresso Penitenziario Internazionale. Fece quindi parte del Segretariato del Congresso Penitenziario Internazionale, rappresentando l'Italia in molte occasioni quale vicepresidente della sezione di diritto. Il Governo francese, invitandola a Parigi, la nominò Officier d'Académie. Allo scoppio della prima guerra mondiale prestò la sua opera come infermiera dalla Croce Rossa, ricevendo quale riconoscimento una medaglia d'argento.
Al termine del conflitto mondiale una legge, la n. 1179 del 17 luglio 1919 nota come legge Sacchi, abolì l'autorizzazione maritale e autorizzò le donne ad entrare nei pubblici uffici, tranne che nella magistratura, nella politica e in tutti i ruoli militari. Lidia Poët nel 1920, all'età di 65 anni entrò quindi finalmente nell'Ordine, divenendo ufficialmente avvocata.
Nel 1922 divenne la presidente del Comitato pro voto donne.
Morì a Diano Marina all'età di 94 anni il 25 febbraio 1949 e venne sepolta nel cimitero di San Martino, in Val Germanasca.
Fu proprio la vicenda legata alla sua esclusione dalla possibilità di esercitare l'avvocatura, e la sua determinazione per arrivare, nonostante tutto, a questo obiettivo, a rendere immortale la storia di Poet. Quella vicenda e ricostruita da Alessandra Fazio in Eco Internazionale, in questi termini: "Il Procuratore generale sosteneva, infatti, la necessità di escludere la Poët, in quanto donna, dall'assunzione delle vesti di "Avvocata" e, conseguentemente, dallo svolgimento della professione, ricordando l'esistenza di un divieto per le donne di rivestire uffici pubblici, tra i quali, appunto, veniva fatta rientrare l'avvocatura.
La denuncia venne accolta dalla Corte di Appello la quale, pronunciandosi sulla questione, ritenne importante sottolineare sebbene le leggi non vietassero esplicitamente alle donne di entrare a far parte dell'avvocheria sarebbe stato, comunque, «disdicevole vederle subentrare nella cosiddetta "palestra forense" e vederle agitarsi in mezzo a pubblici giudizi e discussioni e precisando che la toga e il tocco non potevano essere accostati ad abbigliamenti bizzarri e strane acconciature quali quelle appunto prettamente femminili» e, inoltre, che la presenza di una donna nelle aule dei tribunali avrebbe messo in discussione la «serietà dei giudizi e gettato discredito sulla stessa magistratura».
Quindi, la richiesta venne annullata e il nome di Lidia venne cancellato dall'albo. Ma lei non si arrese e, manifestando il suo disaccordo sull'assurdità dei motivi sottesi alla denuncia, presentò ricorso alla Corte di Cassazione, la quale, purtroppo, confermò quanto addotto dalla Corte di Appello; ragion per cui la Poët non poté esercitare la professione di Avvocato. Dovette attendere quasi 30 anni per ottenere il riconoscimento pieno del titolo e l'iscrizione all'albo degli Avvocati. Ma in quei trent'anni non smise mai di occuparsi di ciò che le stava a cuore collaborando col fratello maggiore e divenendo attivista dei diritti delle donne, dei minori e degli emarginati".
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