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La Cassazione sul licenziamento per uso improprio dei social network.

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 Nell'ambito del rapporto di lavoro, il diritto di critica è disciplinato dallo Statuto dei Lavoratori, che, all'articolo 1, stabilisce che tutti hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero.

Sebbene di rango costituzionale, tale diritto non può, però, essere esercitato indiscriminatamente, ma incontra il proprio limite sia nel rispetto di altri valori di rango costituzionale (il diritto all'onore e dalla reputazione, ad esempio) sia nell'obbligo di fedeltà del dipendente sancito dell'art. 2105 del Codice Civile che, come più volte chiarito dalla giurisprudenza, ha un contenuto più ampio di quello espressamente previsto dalla norma, dovendo essere letto alla luce dei principi generali di correttezza e buona fede che condizionano le modalità di esercizio della libertà di manifestazione del pensiero sia all'interno che all'esterno del luogo di lavoro.

Secondo la giurisprudenza formatasi in materia di critica e cronaca giornalistica, ma successivamente estesa anche al contesto giuslavoristico, l'equo bilanciamento tra diritto di critica e diritto all'onore ed alla reputazione, è ravvisabile qualora i fatti sui quali si fonda la critica rispondano a verità e l'espressione delle opinioni o l'esposizione dei fatti oggetto di critica sia effettuata in maniera moderata e misurata.

Le modalità espressive devono, dunque, secondo la giurisprudenza dominante, essere rispettose di canoni, generalmente condivisi, di correttezza, misura e civile rispetto della dignità altrui.

La violazione anche di uno solo di tali limiti implica l'illiceità della condotta del lavoratore e può, dunque, legittimare un licenziamento disciplinare.

Le regole elaborate dalla giurisprudenza in materia di limiti al diritto di critica del dipendente devono ritenersi valide, a maggior ragione, quando la critica venga espressa sui social network, in cui ogni foto e ogni opinione pubblicata hanno una potenzialità di diffusione esponenziale.

Proprio per l'idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone,  la pubblicazione di un messaggio offensivo sulla bacheca di un social network nei riguardi di persone facilmente individuabili, integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'articolo 595 del codice penale, in quanto commessa col mezzo della stampa,  ciò indipendentemente dal fatto  che la bacheca sia impostata dall'utente come privata e non pubblica, in quanto i social sono da considerarsi luoghi pubblici.

Con l'ordinanza n. 12142 pubblicata il 6.05.2024, la Cassazione è tornata a pronunciarsi sull'uso improprio dei social network in ambito lavorativo, confermando la legittimità di un licenziamento intimato ad un lavoratore che, in un post su Facebook, aveva qualifica in modo offensivo e dispregiativo l'azienda, utilizzando termini altamente lesivi dell'immagine della stessa.

Il principio di massima.

In tema di licenziamento disciplinare, costituisce giusta causa di recesso, in quanto idonea a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo, la diffusione su "facebook" di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro, integrando tale condotta gli estremi della diffamazione, per la attitudine del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone.

Corte di Cassazione, sez. lav., ordinanza del 6.05.2024, n. 12142.




Il caso.


Il dipendente di una società di servizi impugnava giudizialmente il licenziamento irrogatogli per giusta causa in relazione ad una condotta consistita nell'aver postato su Facebook affermazioni diffamatorie nei confronti del datore e dei vertici aziendali.


Il tribunale rigettava il ricorso, ritenendo il comportamento del dipendente idoneo a qualificare in modo offensivo e dispregiativo l'azienda e, dunque, altamente lesivo dell'immagine della stessa.

La statuizione del giudice di primo grado veniva confermata in appello.

In particolare, secondo la Corte d'Appello, il recesso poteva ritenersi proporzionato alla gravità della condotta poiché quest'ultima era idonea ad incrinare il rapporto fiduciario.

Il lavoratore ricorreva in Cassazione per la riforma di tale ultima decisione.



La decisione della Cassazione.

La Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – ha rilevato, anzitutto, che la diffusione su Facebook di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro integra gli estremi della diffamazione:

la potenzialità offensiva della propalazione di notizie o di dichiarazioni proprio a mezzo dei cd. social in generale, e di Facebook in particolare, si legge nell'ordinanza, è stata più volte affermata dalla giurisprudenza sia civile che penale, che ha posto in rilievo l'idoneità del messaggio, una volta immesso sul web, anche su un social ad accesso circoscritto, di sfuggire al controllo del suo autore per essere veicolato e rimbalzato verso un pubblico indeterminato, tanto che l'immissione di un "post" di contenuto denigratorio è stato ritenuto più volte idoneo ad integrare gli estremi della diffamazione. 

 Secondo il collegio, in caso di notizie diffamatorie divulgate su social network, il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione, venendosi, così, a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone comunque apprezzabile per composizione numerica e, come tale, risulta rilevante anche da un punto di vista penale.

Ne consegue che una tale condotta ben legittima il recesso dal rapporto di lavoro da parte dell'azienda, che si vede offesa e denigrata dinanzi ad una platea molto ampia.

Su tali presupposti, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dal dipendente e confermato la legittimità dell'impugnata sanzione espulsiva.




Nome File: Cass.-ord.-n.-12142-2024
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