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Nel diritto del lavoro le mansioni individuano i compiti e le attività che il prestatore di lavoro deve eseguire in esecuzione del contratto di lavoro.
La disciplina delle mansioni è contenuta nell'art. 2103 del codice civile, che, al comma 1, fissa il principio generale della necessaria corrispondenza tra le mansioni espletate in concreto e quelle indicate nel contratto di lavoro, ma, nei commi successivi, prevede anche i casi e le modalità di modifica delle mansioni concordate al momento dell'assunzione.
In caso di assegnazione a mansioni superiori, il settimo comma dell'articolo 2103 del codice civile attribuisce al lavoratore il diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta ed inoltre, nel caso in cui tale assegnazione ecceda il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, il termine di sei mesi continuativi, riconosce al prestatore anche il diritto a che tale assegnazione a mansioni superiori diventi definitiva, a condizione, tuttavia, che la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio.
Nelle piccole realtà aziendali nelle quali datore e prestatore sono in contatto diretto, lo ius variandi è esercitato dal datore di lavoro senza troppe formalità, mentre nelle grandi aziende è frequente, a tal fine, l'utilizzo degli ordini di servizio, ossia di provvedimenti scritti con i quali il datore di lavoro (o un dirigente) prescrive al prestatore di eseguire determinate attività.
In tale ultima evenienza, dottrina e giurisprudenza si interrogano sulla possibilità o meno che i vizi che inficiano l'ordine di servizio incidano sul diritto del lavoratore al riconoscimento del superiore inquadramento.
L'argomento è stato già affrontato nel pubblico impiego - in cui peraltro il diritto al riconoscimento dell'inquadramento superiore risulta precluso dal principio costituzionale dell'obbligo di concorso pubblico -, con specifico riferimento ad ordini provenienti da soggetti non legittimati, ordini che la giurisprudenza dei TAR ha ritenuto inidonei ad immutare lo status del dipendente e, dunque, inidonei a fondare il diritto del dipendente alla maggiore retribuzione.
Con un provvedimento pubblicato il 23 maggio scorso (ci si riferisce all'ordinanza n. 14499/2024) la sezione lavoro della Corte di Cassazione ha, invece, affrontato la questione della nullità dell'ordine di servizio per illiceità della causa, nell'ambito di un rapporto di lavoro privato, affermando che, non rappresentando l'ordine di servizio un elemento costitutivo del diritto al superiore inquadramento, gli eventuali vizi che incidono sulla sua validità giuridica, non possono assumere alcuna valenza ostativa del riconoscimento al superiore inquadramento.
Il principio di massima.
L'accertamento in fatto dello svolgimento di mansioni superiori per lungo periodo da parte del giudice, legittima il riconoscimento, in favore del lavoratore, al superiore inquadramento ai sensi dell'articolo 2103 del codice civile, ciò quand'anche l'assegnazione del lavoratore sia avvenuta in virtù di un ordine di servizio illegittimo.
Detto ordine, infatti, non rappresenta elemento costitutivo del diritto al superiore inquadramento né può neppure assumere, ove nullo, il ruolo di elemento ostativo.
Corte di Cassazione, sez. lav., ordinanza del 23 maggio 2024, n. 14499.
Il caso.
Con un ordine di servizio a firma del direttore generale, la dipendente di una Cassa privata veniva inquadrata nella qualifica di capo ufficio (con diritto alla retribuzione corrispondete) in esecuzione di una sentenza pronunciata dal tribunale in funzione del giudice del lavoro.
Dopo una verifica da parte degli uffici amministrativi, si accertava, però, che, in realtà, la sentenza del Tribunale non aveva assolutamente riconosciuto alla lavoratrice la qualifica di capo ufficio, bensì la differente qualifica di impiegato di prima categoria, pertanto l'azienda comunicava alla lavoratrice che non le avrebbe più corrisposto il trattamento retributivo corrispondente.
La lavoratrice si rivolgeva, pertanto, al giudice del lavoro, il quale, in accoglimento del ricorso, dichiarava il diritto della dipendente ad essere inquadrata come capo ufficio.
La statuizione del primo giudice veniva confermata anche dalla Corte d'Appello, la quale riteneva irrilevanti le questioni sollevate dalla datrice di lavoro riguardo alla nullità dell'ordine di servizio, ma solo perché riteneva che l'accertamento del tribunale sull'effettivo svolgimento delle mansioni superiori di capo ufficio si fosse basato, più che sull'ordine di servizio, sulle prove testimoniali raccolte.
Per la cassazione di tale sentenza, proponeva ricorso l'azienda datrice di lavoro.
La decisione della Cassazione.
Secondo la Corte, l'accertamento fattuale dell'effettivo svolgimento delle mansioni superiori rende irrilevante la nullità dell'ordine di servizio, atteso che esso, in quanto non rappresenta elemento costitutivo del diritto riconosciuto alla lavoratrice, non può neppure assumere, ove nullo, il ruolo di elemento ostativo, né si comprende, prosegue il provvedimento, perché l'eventuale nullità dell'ordine di servizio dovrebbe impedire di riconnettere, all'effettivo svolgimento delle mansioni superiori per un lungo periodo, i diritti previsti dall'art. 2103 del codice civile.
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Paola Mastrantonio, avvocato; amante della libertà, della musica e dei libri. Pensiero autonomo è la mia parola d'ordine, indipendenza la sintesi del mio stile di vita. Laureata in giurisprudenza nel 1997, ho inizialmente intrapreso la strada dell'insegnamento, finché, nel 2003 ho deciso di iscrivermi all'albo degli avvocati. Mi occupo prevalentemente di diritto penale. Mi sono cimentata in numerose note a sentenza, pubblicate su riviste professionali e specializzate. In una sua poesia Neruda ha scritto che muore lentamente chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno. Io sono pienamente d'accordo con lui.