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La decorrenza del termine di prescrizione dei crediti retributivi dopo la riforma Fornero.

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Cass, sez. lav., n. 26246/2022

La massima:

Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012, e del decreto legislativo n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione, e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento dell'entrata in vigore della L. n 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro.

La vicenda

Due lavoratrici agivano in giudizio per chiedere la condanna dell'azienda datrice al pagamento delle differenze retributive maturate per l'espletamento del lavoro straordinario notturno.

Sia il giudice del primo che quello del secondo grado rigettavano il ricorso, reputando già spirato il termine di prescrizione quinquennale previsto dal n. 4 dell'art. 2948 c.c..

Secondo i giudici della fase di merito, il rapporto di lavoro delle ricorrenti era assistito dalla garanzia di stabilità reale previsto dall'art. 18, il che escludeva che le lavoratrici fossero in una condizione psicologica di timore nei confronti dell'azienda datrice di lavoro, che avesse impedito loro di agire per il pagamento delle differenze retributive già in costanza di rapporto. Pertanto, secondo quanto affermato sia dal Tribunale che dalla Corte territoriale, il termine quinquennale di prescrizione delle spettanze retributive era iniziato a decorrere già durante la vigenza del rapporto lavorativo e, al momento della proposizione del ricorso, il diritto alla loro percezione doveva ritenersi già estinto.

La decisione della Corte.

Secondo la Corte, affinché un rapporto di lavoro possa reputarsi assistito dalla garanzia della stabilità, è indispensabile che, indipendentemente dal suo carattere pubblico o privato, sia regolato da una disciplina la quale, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l'efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo.

Ora, proseguono gli Ermellini, affinché del regime di stabilità o meno del rapporto di lavoro si abbia una chiara conoscibilità, in via di generale predeterminazione, è indispensabile che esso (regime) risulti fin dal momento della sua istituzione (qualora si tratti di un rapporto esplicitamente di lavoro subordinato a tempo tanto indeterminato che determinato); se, invece, il rapporto sia stato stipulato tra le parti con una qualificazione, non rappresentativa della sua effettività, priva di garanzia di stabilità, occorre che tale stabilità emerga dal concreto atteggiarsi del rapporto stesso nel corso del suo svolgimento e non che (la stabilità) sia accertata dal giudice con valutazione ex post. Infatti, continua il giudice delle leggi, l'individuazione del regime di stabilità o meno del rapporto di lavoro in base alla qualificazione ad esso attribuita dal giudice, con un giudizio necessariamente ex post, contraddice radicalmente quei requisiti di chiara e predeterminata conoscibilità ex ante, coerente con l'esigenza di certezza.

Fatte queste doverose premesse, la Corte ha affrontato l'aspetto relativo al superamento, per effetto delle significative modifiche normative apportate all'art. 18 L. 300/70, della esclusività della tutela reintegratoria, al fine di valutarne poi gli effetti sul caso sottoposto alla sua valutazione.

Secondo la Cassazione, è indubbio che le modifiche apportate dall'art. 1 co. 42 della L. n. 92 del 2012 e poi dagli artt. 3 e 4 del decreto legislativo n. 23 del 2015, all'art. 18 S.L., abbiano comportato il passaggio da un'automatica applicazione, ad ogni ipotesi di illegittimità del licenziamento, della tutela reintegratoria e risarcitoria, in misura predeterminabile con certezza (pari al periodo di maturazione dalla data di licenziamento a quella di effettiva reintegrazione dell'ultima retribuzione globale di fatto) ad un'applicazione selettiva delle tutele caratterizzata dalla scelta della sanzione applicabile (reintegratoria e risarcitoria ovvero soltanto risarcitoria) e con una diversa commisurazione. 

Peraltro, prosegue la Suprema Corte, secondo i nuovo sistema delineato dall'art. 18 S.L., nel caso in cui escluda la ricorrenza di una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento, il giudice deve svolgere, al fine di individuare la tutela applicabile, un'ulteriore disamina sulla sussistenza o meno di una delle condizioni previste dall'art. 18, co. 4, per accedere alla tutela reintegratoria.

Sulla scorta di tali considerazioni, è innegabile, dunque che, nell'attuale sistema, la tutela indennitaria abbia abbia assunto una forte valenza di carattere generale, mentre, al contrario, il rimedio reintegratorio abbia assunto un carattere recessivo.

Così come congeniata dalla riforma, una simile forma di tutela è suscettibile di minare anche la funzione dissuasiva della stessa nei confronti del datore di lavoro, allontanandolo dall'intento di licenziare senza una valida e qualificata motivazione, e, in tal modo, rischia di compromettere l'equilibrio degli obblighi assunti nel contratto.

Il legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalità, ha sicuramente la facoltà di prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario,ma tale meccanismo deve sempre articolarsi nel rispetto del principio di ragionevolezza. Secondo la corte, infatti, il diritto alla stabilità del posto, non è null'altro che una sintesi terminologica dei limiti del potere di licenziamento sanzionati dall'invalidità dell'atto non conforme.

Sulla base delle caratteristiche scrutinate, la Corte ha ritenuto che il nuovo art. 18 S.L. non possa reputarsi conforme al principio di ragionevolezza dal momento che esso non appare idoneo ad assicurare un'adeguata stabilità del rapporto di lavoro.

La prescrizione può iniziare a decorrere in corso di rapporto esclusivamente quando la reintegrazione, non soltanto sia, ma appaia la sanzione contro ogni illegittima risoluzione, nel corso dello svolgimento in fatto del rapporto stesso: così come accade per i lavoratori pubblici e come era nel vigore del testo dell'art. 18 anteriore alla L. n. 92 del 2012, per quei lavoratori cui la norma si applicava.Solo a questa oggettiva precognizione, infatti, si collega l'assenza del metus del lavoratore per la sorte del rapporto di lavoro ove egli intenda far valere un proprio credito, nel corso di esso.

Non costituisce, invece, garanzia sufficiente, il mantenimento della tutela reintegratoria, tanto con la L. 92 del 2012, tanto con il D.Lgs. n. 23 del 2015.

Non si tratta, infatti, affermano gli Ermellini, di enucleare una condizione non meramente psicologica (siccome dipendente da una percezione soggettiva), ma obbiettiva di metus del dipendente nei confronti del datore di lavoro, per effetto di un'immediata e diretta correlazione eziologica tra l'esercizio (obiettivamente inibito) di una rivendicazione retributiva del lavoratore e la reazione datoriale di licenziamento in ragione esclusiva di essa.

Conclusivamente, secondo la Corte, deve essere escluso, per la mancanza dei presupposti di predeterminazione certa della fattispecie di risoluzione e soprattutto di una loro tutela adeguata, che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del decreto legislativo n. 23 del 2015 sia assistito da un regime di stabilità. Da ciò discende la decorrenza originaria del termine di prescrizione, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935, c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento dell'entrata in vigore della L. n. 92 del 2012.

 

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