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I Giudici della Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n.40799 del 13 settembre 2018 hanno stabilito che nell'ipotesi di reato di rifiuto di atti di ufficio commesso da un sanitario, previsto dall'art. 328 c.p., l'accertamento dell'elemento soggettivo deve essere effettuato tenendo conto della natura di reato (reato di pericolo), esulando ogni valutazione sulla colpa professionale sanitaria.
I Fatti
L'imputata proponeva ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Messina che aveva confermato quella di primo grado che lo dichiarava responsabile del delitto di cui all'art. 328 cod. pen. . La stesso nella sua qualità di operatore della Centrale operativa del 118 di Messina, aveva indebitamente rifiutato un atto del suo ufficio che doveva essere compiuto senza ritardo. In particolare, la ricorrente veniva sottoposta a procedimento penale per avere violato, nel corso di tre conversazioni telefoniche intercorse nel giro di pochi minuti, le regole di condotta previste nelle Linee Guida - protocolli e procedure di servizio S.U.E.S. 118 Sicilia, non raccogliendo i dati necessari e sufficienti stabiliti dal protocollo operativo e non procedendo alla cosiddetta "intervista", i cui contenuti sono elencati nelle suddette linee-guida e la cui durata deve avere un tempo medio di 60 secondi, mentre nel caso di specie le tre telefonate hanno avuto al massimo una durata complessiva di 44 secondi.
Secondo l' accusa la ricorrente non attribuiva inoltre un codice di criticità/gravità adeguato alla richiesta di intervento, consigliando ai suoi interlocutori, di rivolgersi alla Guardia medica, ipotesi contemplata dalle linee-guida solo in caso di codice d'urgenza bianco, mentre si trattava di codice d'urgenza rosso, come rilevato dai sanitari successivamente intervenuti presso l'Ospedale
La ricorrente deduceva:a) l' erronea applicazione degli artt. 328 cod. pen. e 530, comma 2, cod. proc. pen., nonché delle Linee-guida e del Protocollo sulle regole di comportamento del Servizio 118 della Regione Sicilia poiché la Corte territoriale non aveva indicato alcuna prova decisiva in ordine all'accertato elemento soggettivo ; b)la violazione degli art. 111 Cost. e 546, lett. e) cod. proc. pen., in quanto nel rigettare le prospettazioni difensive la Corte territoriale si è limitata a richiamare la motivazione della sentenza impugnata; c) l'erronea applicazione degli artt. 157 e 161, comma 2, cod. pen., trattandosi di reato estinto col decorso del termine massimo di sette anni e mezzo.
Decisione
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile dai giudici della Sesta Sezione.
Il primo motivo è stato dichiarato inammissibile in quanto ripropone questioni di merito già sollevate con l'impugnazione avanti la Corte territoriale.
In ogni caso i giudici della Corte hanno ribadito che la giurisprudenza di legittimità ha più volte chiarito che il reato di rifiuto di atti di ufficio è un reato di pericolo ed in quanto tale si prescinde dal concreto esito della omissione (ex plurimis, Sez. 6, n. 39745 del 27/09/2012, Rv. 253547; Sez. 6, n. 3599 del 23/3/1997, Rv. 207545).
Nel caso di specie è stato accertato che la ricorrente consapevolmente e reiteratamente si è sottratta alla valutazione dell'urgenza dell'atto d'ufficio, peraltro del tutto evidente fin dalla prima chiamata dei familiari della vittima (Sezione 6, n. 39745 del 27/09/2012, Rv. 253547).
Con riferimento al secondo motivo lo stesso è stato dichiarato manifestamente infondato, per quanto, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, i giudici della Corte di Appello hanno operato una puntuale ed adeguata valutazione delle censure proposte con l'atto di appello.
Con riferimento al terzo motivo del ricorso i giudici della Sesta Sezione hanno affermato che : "l'inammissibilità del ricorso per cassazione preclude pertanto ogni possibilità sia di far valere sia di rilevare di ufficio, ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., l'estinzione del reato per prescrizione maturata in data posteriore alla pronunzia della sentenza di appello. Nel caso di specie, il termine massimo di prescrizione si sarebbe in vero maturato, a seguito dei verificatisi atti interruttivi e salvi ulteriori periodi di sospensione, solo in data 5/1/2018 (6 anni dalla commissione del fatto, aumentati di 1/4 ex art. 161 cod. pen.), quindi successivamente alla sentenza impugnata".
Per questi motivi è stato dichiarato inammissibile il ricorso e pronunciata la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali .
Si allega sentenza
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