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"E' l'ora di andarsene, io a morire e voi a vivere". Il processo a Socrate, l'epilogo

"E' l'ora di andarsene, io a morire e voi a vivere". Il processo a Socrate, l'epilogo

 Socrate, figlio di Sofronisco del demo di Alopece (in greco antico: Σωκράτης, Sōkrátēs; Atene, 470 a.C./469 a.C.Atene, 399 a.C.), è stato un filosofogreco antico, uno dei più importanti esponenti della tradizione filosofica occidentale. Il contributo più importante che egli ha dato alla storia del pensiero filosofico consiste nel suo metodo d'indagine: il dialogo che utilizzava lo strumento critico dell'elenchos (ἔλεγχος, élenchos = "confutazione") applicandolo prevalentemente all'esame in comune (ἐξετάζειν, exetάzein) di concetti morali fondamentali. Per questo Socrate è riconosciuto come padre fondatore dell'etica o filosofia morale.

Per le vicende della sua vita e della sua filosofia che lo condussero al processo e alla condanna a morte è stato considerato, dal filosofo e classicista austriaco Theodor Gomperz, il «primo martire per la causa della libertà di pensiero e d'investigazione».

«...dall'antichità ci è pervenuto un quadro della figura di Socrate così complesso e così carico di allusioni che ogni epoca della storia umana vi ha trovato qualche cosa che le apparteneva. Già i primi scrittori cristiani videro in Socrate uno dei massimi esponenti di quella tradizione filosofica pagana che, pur ignorando il messaggio evangelico, più si era avvicinata ad alcune verità del Cristianesimo.

Il continuo dialogare di Socrate, attorniato da giovani affascinati dalla sua dottrina e da importanti personaggi, nelle strade e piazze della città fece sì che egli venisse scambiato per un sofista dedito ad attaccare imprudentemente e direttamente i politici. Il filosofo, infatti, dialogando con loro dimostrò come la loro vantata sapienza in realtà non esistesse. Socrate venne quindi ritenuto un pericoloso nemico politico che contestava i tradizionali valori cittadini.Per questo Socrate, che aveva attraversato indenne i regimi politici precedenti, che era rimasto sempre ad Atene e che non aveva mai accettato incarichi politici, fu accusato e messo sotto processo, dal quale poi sarebbe derivata la sua condanna a morte.Causa materiale del processo furono due esponenti di rilievo del regime democratico, Anito e Licone, i quali, servendosi di un prestanome, Meleto, un giovane ambizioso, fallito letterato, accusarono il filosofo di:

  • corrompere i giovani insegnando dottrine che propugnavano il disordine sociale;
  • non credere negli dei della città e tentare di introdurne di nuovi.

L'accusa di "ateismo", che rientrava in quella di "empietà" (ἀσέβεια, asebeia), condannato da un decreto di Diopeithes all'incirca nel 430 a.C., fu evidentemente un pretesto giuridico per un processo politico, poiché l'ateismo era sì ufficialmente riprovato e condannato ma tollerato e ignorato se affermato privatamente.Poiché la religione e la cittadinanza erano ritenute un tutt'uno, accusando Socrate di ateismo lo si incolpò di avere cospirato contro le istituzioni e l'ordine pubblico. D'altra parte Socrate non aveva mai negato l'esistenza degli dei della città ed eluse facilmente l'accusa sostenendo di credere in un dáimon, creatura minore figlia delle divinità tradizionali.Lisia si offrì di difendere Socrate, ma egli rifiutò probabilmente perché non voleva confondersi con i sofisti e preferì difendersi da solo. Descritto da Platone nella celebre Apologia di Socrate, il processo evidenziò due elementi:

  • che da chi non lo conosce, Socrate è stato confuso con i sofisti considerati corruttori morali dei giovani e
  • che egli era odiato dai politici.

Riguardo all'accusa di corrompere i giovani essa va spiegata con il fatto che Socrate era stato maestro di Crizia e di Alcibiade, due personaggi che nell'Atene della restaurazione democratica godevano di pessima fama. Crizia era stato il capo dei Trenta tiranni e Alcibiade, per sfuggire al processo che gli era stato intentato, aveva tradito Atene ed era passato a Sparta, combattendo contro la propria patria. Furono tali rapporti di educatore che ebbe con questi due personaggi a porre le basi dell'accusa di corrompere i giovani. Oggi la critica più attenta ha dimostrato che il processo e la morte di Socrate non furono un avvenimento incomprensibile rivolto contro un uomo, apparentemente trascurabile e non pericoloso per il regime democratico, che voleva ricostruire un'unità politica e spirituale all'interno della città. Uno studioso inglese scrive infatti che fu principalmente:«[...] la diffidenza suscitata dai rapporti di Socrate con i "traditori" che spinse i capi della restaurata democrazia a sottoporlo a processo nel 400-399. Alcibiade e Crizia erano morti entrambi, ma i democratici non si sentivano al sicuro finché l'uomo che s'immaginava avesse ispirato i loro tradimenti esercitava ancora influenza sulla vita pubblica.»Il processo[modifica | modifica wikitesto]Il processo si tenne nel 399 a.C. innanzi a una giuria di 501 cittadini di Atene e, com'era da aspettarsi per una figura come quella di Socrate, fu atipico: egli si difese contestando le basi del processo, anziché lanciarsi in una lunga e pregevole difesa o portando in tribunale la sua famiglia per impietosire i giudici, come di solito si faceva. Fu riconosciuto colpevole per appena trenta voti di margine. Dopodiché, come previsto dalle leggi dell'Agorà, sia Socrate sia Meleto dovettero proporre una pena per i reati di cui l'imputato era stato accusato. Socrate sfidò i giudici proponendo loro di essere mantenuto a spese della collettività nel Pritaneo, poiché riteneva che anche a lui dovesse essere riconosciuto l'onore dei benefattori della città, avendo insegnato ai giovani la scienza del bene e del male. Poi consentì di farsi multare, seppur di una somma ridicola (una mina d'argento dapprima, cioè tutto quello che egli possedeva; trenta mine poi, sotto pressione dei suoi seguaci, che si fecero garanti per lui). Meleto chiese invece la morte.Furono messe ai voti le proposte: con ampia maggioranza (360 voti a favore contro 140 contrari), più per l'impossibilità di punire Socrate multandolo di una somma così ridicola che per l'effettiva volontà di condannarlo a morte, gli ateniesi accolsero la proposta di Meleto e lo condannarono a morire mediante l'assunzione di cicuta. Era pratica diffusa autoesiliarsi dalla città pur di sfuggire alla sentenza di morte, ed era probabilmente su questo che contavano gli stessi accusatori. Socrate dunque intenzionalmente irritò i giudici, che non erano in realtà mal disposti verso di lui; Socrate in effetti aveva già deciso di non andare in esilio, in quanto anche fuori di Atene avrebbe persistito nella sua attività: dialogare con i giovani e mettere in discussione tutto quello che si vuol far credere verità certa.Sostenne Socrate:«Perciò mi ritroverò a rivivere la stessa situazione che mi ha portato alla condanna: qualcuno dei parenti dei miei giovani discepoli si irriterà della mia ricerca della verità e mi accuserà.»Del resto, egli non temeva la morte, che nessuno sa se sia o no un male, ma la preferiva all'esilio, per lui sì un male sicuro. Come racconta Platone nel dialogo del Critone, Socrate, pur sapendo di essere stato condannato ingiustamente, una volta in carcere rifiutò le proposte di fuga dei suoi discepoli, che avevano organizzato la sua evasione corrompendo i carcerieri. Ma Socrate non sfuggirà alla sua condanna poiché «è meglio subire ingiustizia piuttosto che commetterla»; egli accetterà la morte che d'altra parte non è un male perché o è un sonno senza sogni, oppure darà la possibilità di visitare un mondo migliore dove, dice Socrate, s'incontreranno interlocutori migliori con cui dialogare. Quindi egli continuerà persino nel mondo dell'aldilà a professare quel principio a cui si è attenuto in tutta la sua vita: il dialogo.Si pone a questo punto uno dei temi più dibattuti della questione socratica, cioè il rapporto tra Socrate e le leggi: perché Socrate accetta l'ingiusta condanna? «È giunto ormai il tempo di andare, o giudici, io per morire, voi per continuare a vivere. Chi di noi vada verso una sorte migliore, è oscuro a tutti, tranne che al dio.»(Platone, Apologia di Socrate, 42a). Socrate trascorre serenamente, secondo le sue abitudini, la sua ultima giornata in compagnia dei suoi amici e discepoli, dialogando di filosofia come aveva sempre fatto, e in particolare affrontando il problema dell'immortalità dell'anima e del destino dell'uomo nell'aldilà.Quindi Socrate si reca in una stanza a lavarsi per evitare alle donne il fastidio di accudire al suo cadavere. Tornato nella cella, dopo aver salutato i suoi tre figlioli (Sofronisco, dal nome del nonno, Lamprocle e il piccolo Menesseno) e le donne di casa, li invita ad andarsene. Scende il silenzio nella prigione sino a quando giunge il messo degli Undici ad annunciare a quel singolare prigioniero, così diverso dagli altri, come egli dice, per la sua gentilezza, mitezza e bontà, che è giunto il tempo di morire. L'amico Critone vorrebbe che il maestro, come hanno sempre fatto gli altri condannati a morte, rimandasse ancora l'ultima ora poiché non è ancora il tramonto, il tempo stabilito dalla condanna, ma Socrate:Socrate decide di bere la cicuta, in un fumetto novecentesco.«È naturale che costoro facciano così perché credono d'aver qualcosa da guadagnare...[io] credo di non aver altro da guadagnare, bevendo un poco più tardi [il veleno], se non di rendermi ridicolo a' miei stessi occhi, attaccandomi alla vita e facendone risparmio quando non c'è più niente da risparmiare...»Giunto il carceriere incaricato della somministrazione della cicuta Socrate si rivolge a lui, poiché in questo "dialogo" è lui il più "sapiente", chiedendogli che cosa si deve fare e se si può libare a un qualche dio. Il boia risponde che basta bere il veleno che è della giusta quantità per morire e non è quindi possibile usarne una parte per onorare gli dei. Socrate allora dice che si limiterà a pregare la divinità perché gli assicuri un felice trapasso e, così detto, beve la pozione. Gli amici a questo punto si abbandonano alla disperazione ma Socrate li rimprovera facendo, lui che sta morendo, a loro coraggio:«Che stranezza è mai questa, o amici, non per altra ragione io feci allontanare le donne perché non commettessero di tali discordanze. E ho anche sentito dire che con parole di lieto augurio bisogna morire. Orsù dunque state quieti e siate forti»Il paralizzarsi e il raffreddarsi delle membra, divenute insensibili, dai piedi verso il torace, segnala il progressivo avanzare del veleno:«E ormai intorno al basso ventre era quasi tutto freddo; ed egli si scoprì – perché s'era coperto – e disse, e fu l'ultima volta che udimmo la sua voce: «O Critone, noi siamo debitori di un gallo ad Asclepio: dateglielo e non dimenticatevene!»

Il tribunale ha votato, riconoscendo Socrate colpevole. L'imputato riconosciuto colpevole ha facoltà
di proporre una pena alternativa a quella richiesta dall'accusatore.
XXV. [35e] Non mi senta irritato, cittadini ateniesi, da quanto [36a] è avvenuto - avete votato a mio
sfavore - per molte ragioni insieme, e specialmente perché non è accaduto inaspettatamente: anzi, mi
meraviglio molto più del numero di voti di ciascuna delle due parti. Io personalmente pensavo che la
differenza sarebbe stata ampia, e non così piccola. Ma ora, a quanto pare, se soltanto trenta voti
fossero migrati dall'altra parte, io sarei stato assolto. In ogni caso, a me sembra di essere stato assolto
dall'accusa di Meleto anche così, e non soltanto assolto: è chiaro che se non fossero sopraggiunti
Anito e Licone ad accusarmi, avrebbe anche dovuto pagare [36b] la multa di mille dracme, non avendo ottenuto un quinto dei voti.
XXVI. Dunque quest'uomo propone per me la pena di morte. Va bene: e quale pena dovrò offrire
come controproposta, cittadini ateniesi? Chiaramente quella che merito, non è vero? Quale allora? Che
cosa merito di subire o di pagare, perché nella mia vita non me ne sono stato tranquillo a studiare, ma
trascurando ciò di cui si interessano i più - fare soldi, amministrare la casa, aspirare a comandi militari,
a ruoli pubblici di oratore e ad altre cariche, partecipare alle associazioni politiche e alle lotte intestine
della città - e ritenendomi [36c] troppo onesto per sopravvivere in quegli ambiti, non andavo dove non
sarei stato certo utile a voi e a me, ma vi facevo un grandissimo servizio rivolgendomi a ciascuno di
voi in privato? Questo facevo - dico - cercando di convincere ciascuno di voi a non prendersi cura di
nessuno dei propri affari prima che di se stesso, per diventare il più possibile eccellente e saggio, né a
occuparsi degli affari della città prima che della città stessa, [36d] e analogamente per il resto - allora,
che cosa merito di patire perché sono così? Qualcosa di buono, cittadini ateniesi, se in verità si deve
ricompensare secondo il merito; e qualcosa di buono che mi si addica. Che cosa si addice a un uomo
povero che vi ha fatto del bene e che ha bisogno di tempo libero per la vostra istruzione? Non c'è nulla
che si addica di più, cittadini ateniesi, di una pensione nel Pritaneo; [e si addice] molto di più a lui che
a chi di voi abbia vinto alle Olimpiadi con cavallo, biga o carro da corsa; perché quest'ultimo vi fa
credere felici, mentre io vi faccio [36e] essere felici davvero, e lui non ha bisogno di sostentamento,
mentre io sì. Se dunque devo chiedere quello che merito secondo giustizia, [37a] mi sia assegnata
questa pena: mangiare nel Pritaneo.
XXVII. Forse anche dicendo queste cose vi sembro parlare con arroganza, come avrei fatto a proposito
del suscitare compassione e del supplicare. Non è così, cittadini ateniesi. Io sono convinto, piuttosto,
di non aver fatto volontariamente ingiustizia a nessuno, ma non convinco voi: abbiamo avuto poco
tempo per discutere insieme. E se - penso - da voi vigesse, come fra altri, la consuetudine (nomos) di
non decidere su una condanna a morte in un giorno [37b] solo, ma in più, verreste persuasi, ma ora non
è facile sciogliersi da calunnie così grandi in un tempo così piccolo. Io sono convinto di non aver fatto
ingiustizia a nessuno e perciò non voglio fare ingiustizia a me stesso dicendo di me che merito del
male e proponendo qualcosa del genere come pena. E per paura di che? Forse per paura di subire la
pena proposta da Meleto, della quale dico di non sapere se è un bene o un male? E in luogo di quella
dovrei scegliere cose che so bene essere mali, e proporle come pene? E che cosa dovrei proporre? La
prigione? [37c] E perché dovrei vivere in carcere, da schiavo della perenne istituzione degli Undici?
Oppure una pena pecuniaria e la detenzione finché non l'avrò pagata? Ma per me sarebbe la stessa
cosa, perché non ho i soldi per pagarla. Dovrei invece proporre l'esilio? Forse questa pena la
considerereste adatta a me. Ma, cittadini ateniesi, dovrei davvero essere posseduto da una gran voglia
di vivere, se fossi così sconsiderato da non saper vedere che voi, pur essendo miei concittadini, non
siete riusciti a sopportare il mio [37d] modo di vivere e i miei discorsi e vi sono diventati tanto
oppressivi ed odiosi che ora cercate di liberarvene: altri, forse, li sopporteranno facilmente? Tutt'altro,
cittadini ateniesi. Avrei proprio una bella vita, in esilio alla mia età, passando di città in città, scacciato
da ogni parte. Perché so bene che, dovunque vada, i giovani verranno ad ascoltarmi come qui; e se li
mando via, loro stessi convinceranno i più anziani ad espellermi; [37e] se non lo faccio, i loro padri e
familiari mi espelleranno a causa loro.
XXVIII. Allora qualcuno potrebbe dire: - Socrate, ma non riuscirai a vivere stando zitto e tranquillo,
una volta allontanatoti da noi? - Convincere qualcuno di voi su questo è la cosa più difficile di tutte.
Perché se vi dico che un simile comportamento è disubbidienza al dio e perciò è impossibile [38a], voi
non mi credete e pensate che faccia finta (eironeoumeno); e se vi dico ancora che il più gran bene che
può capitare a una persona è discorrere ogni giorno della virtù e del resto, di cui mi sentite discutere e
indagare me stesso e gli altri - una vita senza indagine non è degna di essere vissuta - voi mi credete
ancor meno. Ma è così come dico, cittadini, per quanto non sia facile convincervene. E inoltre non
sono abituato a pensare me stesso come meritevole di qualcosa di male. [38b] Se avessi avuto soldi, avrei proposto una pena pecuniaria, nella misura delle mie possibilità di pagamento, e non ne sarei
stato per nulla danneggiato. Ma ora non ho soldi, a meno che non vogliate multarmi di quel poco che
potrei pagare. Forse potrei pagarvi una mina d'argento all'incirca: e questa multa propongo come
pena.
Ma, cittadini ateniesi, Platone, che è qui, e Critone, e Critobulo, e Apollodoro, insistono perché
proponga una pena pecuniaria di trenta mine e per darne loro stessi garanzia. Mi multo allora di tanto.
E ne saranno garanti per voi questi qui, con la corrispondente quantità di denaro.
Terza parte
Il tribunale ha deliberato a favore della condanna di Socrate a morte.
XXIX. [38c] Cittadini ateniesi, riceverete, da parte chi vuole insultare la città, la fama e la colpa di
aver ucciso Socrate, uomo sapiente - perché chi vi vuole offendere dice che sono sapiente, anche se
non lo sono - per guadagnare non molto tempo davvero: se aveste aspettato un poco, la cosa sarebbe
avvenuta da sé. Vedete la mia età, già avanti nella vita, e anzi vicina alla morte. Questo non lo dico
[38d] a tutti voi, ma a quelli che hanno votato per la mia condanna a morte. E a loro dico anche questo:
voi forse credete, cittadini ateniesi, di avermi colto in difetto di discorsi con cui convincervi, se avessi
ritenuto indispensabile fare e dire di tutto pur di sfuggire alla condanna. Ma non è così. Sono stato
colto in difetto, ma non certo di discorsi, bensì di sfrontatezza e spudoratezza, e di voglia di dirvi
quello che avreste ascoltato con più piacere: lamenti, pianti e molte altre azioni e [38e] parole indegne
di me - dico - ma che voi siete abituati a sentire dagli altri. Tuttavia, io non ritenni allora doveroso
comportarmi in modo indegno di un uomo libero per paura del pericolo, e non mi pento ora di essermi
difeso così, ma preferisco di gran lunga morire con questa autodifesa che vivere in quel modo. Perché
né in tribunale, né in guerra, né altrove, nessuno deve [39a] ricorrere a espedienti di quel genere per
sfuggire in tutti i modi alla morte. Anche nelle battaglie spesso si rende chiaro che qualcuno potrebbe
evitare di morire gettando le armi e voltandosi a supplicare chi lo insegue; e in tutti i pericoli ci sono
molti altri espedienti per sfuggire alla morte, se non ci si fa scrupolo di fare e dire qualunque cosa. Ma,
cittadini, forse evitare la morte non è difficile, ed è molto più difficile evitare la malvagità, [39b]
perché corre più veloce della morte. E ora io, che sono così lento e vecchio, sono stato catturato dalla
più lenta, mentre i miei accusatori, che sono così bravi e svelti, li ha presi la più veloce, la cattiveria. E
ora me ne vado, io condannato a morte da voi, loro condannati alla malvagità e all'ingiustizia dalla
verità. Io mantengo la mia pena, loro la loro. Forse era in qualche modo necessario che fosse così; e io
penso che sia secondo la giusta misura.
XXX. [39c] Ma desidero fare una predizione a voi, che avete votato contro di me: perché sono già là
dove le persone sono più propense a fare predizioni, quando stanno per morire. Io vi dico, uomini che
mi avete ucciso, che ci sarà per voi una retribuzione, subito dopo la mia morte, molto più dura di
quella pena cui mi avete condannato. Perché voi ora avete fatto questo credendo di liberarvi dal
compito di esporre la vita a esame e confutazione [elenchon didonai], ma ne deriverà tutto il contrario,
ve lo dico io. A mettervi sotto esame per confutarvi saranno di più: [39d] quelli che finora trattenevo,
di cui voi non vi accorgevate; e saranno tanto più duri quanto più sono giovani, e tanto più ne sarete
irritati. Perché se pensate che basti uccidere le persone per impedire di criticarvi perché non vivete
rettamente, non pensate bene. Non è questa la liberazione - né possibile, né bella - ma quella,
bellissima e facilissima, non di reprimere gli altri, bensì preparare se stessi per essere quanto possibile
eccellenti. Con questo vaticinio per voi che avete votato contro di me prendo congedo.
XXXI. [39e] Mi piacerebbe discutere su quello che è accaduto con chi ha votato per la mia
assoluzione, mentre i magistrati sono occupati e non vado ancora dove bisogna morire. State con me,
cittadini, per questo tempo: niente impedisce che conversiamo fra di noi, finché è permesso. A voi, [40a] perché mi siete amici, ho voglia di far vedere qual è il senso di quello che mi è successo oggi.
Perché a me, giudici - e chiamandovi giudici credo di chiamarvi correttamente - è accaduto qualcosa di
meraviglioso. La solita voce oracolare - la voce di qualcosa di demonico - prima mi era continuamente
vicina e si opponeva sempre, anche su cose di poco conto, se stavo per fare qualcosa di non giusto. Ora
mi è successo - lo vedete da voi - questo, che qualcuno potrebbe considerare un male estremo e che è
creduto tale. Ma [40b] il segno del dio non mi ha trattenuto né la mattina presto, mentre uscivo di casa,
né quando salivo qui in tribunale, né in nessun punto del discorso, mentre stavo per dire qualcosa.
Eppure molte volte, in altri discorsi, mi ha addirittura interrotto; oggi, invece, non mi si è mai opposto
in nulla di quello che facevo e dicevo. Quale suppongo ne sia la causa? Ve lo dirò: quello che è
successo ha l'aria di essere stato un bene e non è possibile che abbia ragione [40c] chi di noi pensa che
morire sia un male. Ne ho avuto una grande prova: se quello che stavo per fare non fosse stato un
bene, il segno consueto non avrebbe mancato di trattenermi.
XXXII. Ma consideriamo per quale altro motivo sia così grande la speranza che morire sia un bene.
Morire è una di queste due cose: o chi è morto non è e non ha percezione di nulla, oppure morire,
come si dice, può essere per l'anima una specie di trasformazione (metabolé) e di trasmigrazione
(metoikesis) da qui a un altro luogo. E se è assenza di percezione [40d] come un sonno, quando
dormendo non si vede niente, neanche un sogno, allora la morte sarebbe un meraviglioso guadagno -
perché io penso che se qualcuno, dopo aver scelto quella notte in cui dormì così profondamente da non
vedere neppure un sogno, e paragonato a questa le altre notti e giorni della sua vita, dovesse dire, tutto
considerato, quanti giorni e quante notti abbia vissuto meglio e più dolcemente di quella notte, penso
che non solo un qualsiasi privato, ma lo stesso Gran Re [40e] troverebbe, rispetto agli altri, questi
giorni e queste notti facili da contare - se dunque è questa la morte, io dico che è un guadagno; anche
perché così il tempo tutto intero non sembra più di una notte sola. Se d'altra parte la morte è un
emigrare (apodemesai) da qui a un altro luogo, ed è vero quel che si dice, che dunque tutti i morti sono
là, o giudici, che bene ci può essere più grande di questo? Perché se qualcuno, [41a] arrivato all'Ade,
liberatosi dai sedicenti giudici di qui, troverà quelli che sono giudici veramente, che appunto si dice
giudichino là, Minosse, Radamanto, Eaco, Trittolemo e tutti gli altri semidei che furono giusti nella
loro vita, potrà forse essere, questa, una migrazione da nulla? O ancora per stare con Orfeo e con
Museo, con Esiodo e con Omero, quanto ciascuno di voi accetterebbe di pagare? Se questo è vero, da
parte mia sono disposto a morire più volte. Oltretutto, [41b] per l'appunto, là io avrei davvero un
passatempo straordinario, se m'imbattessi in Palamede, in Aiace Telamonio o in qualcun altro degli
antichi morto per un giudizio ingiusto, paragonando le mie esperienze alle loro - non credo che
sarebbe spiacevole - e soprattutto non sarebbe spiacevole continuare ad esaminare ed interrogare quelli
di là come quelli di qua, per capire chi di loro è sapiente e chi crede di esserlo, ma non lo è. Quanto
sarebbe disposto a pagare chiunque di voi, giudici, per mettere sotto esame chi condusse contro Troia
[41c] il grande esercito, o Odisseo, o Sisifo, o gli innumerevoli altri di cui si potrebbe dire, uomini e
donne? Discutere con loro e starci insieme e metterli sotto esame non sarebbe una inconcepibile
felicità? In ogni caso la gente di là non mi può certo far morire per questo: se quanto si dice è vero,
quelli di là sono più felici di quelli di qua anche per altri aspetti e sono già immortali per il tempo che
rimane.
XXXIII. Ma bisogna, giudici, che anche voi speriate bene davanti alla morte e teniate in mente questa
verità, che [41d] non può esserci male per un uomo buono, né da vivo né da morto, e niente di quanto
lo riguarda è trascurato dagli dei; anche le mie vicende d'ora non sono avvenute da sé, ma mi è chiaro
che ormai per me morire ed esser liberato dal peso dell'azione era la cosa migliore. Per questo anche il
segno non è mai intervenuto a distogliermi ed io personalmente non provo nessun rancore verso chi mi
ha votato contro e chi mi ha accusato. A dire il vero, non mi hanno votato contro ed accusato con
questa intenzione, ma pensando di danneggiarmi, [41e] e perciò meritano di essere biasimati. Tuttavia,
a loro faccio questa preghiera: i miei figli, una volta cresciuti, puniteli, cittadini, tormentandoli come
io tormentavo voi, se vi sembra che si preoccupino dei soldi e d'altro prima che delle virtù; e se fanno finta di essere qualcosa ma non sono nulla, svergognateli come io facevo con voi, perché non si
prendono cura di ciò di cui occorre curarsi e pensano di essere qualcosa senza valer nulla. E se [42a]
farete così, io sarò trattato giustamente da voi, ed anche i miei figli.
Ma è già l'ora di andarsene, io a morire, voi a vivere; chi di noi però vada verso il meglio, è cosa
oscura a tutti, meno che al dio.

 

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