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"Elogio degli avvocati scritto da un giudice", l'opera di Domenico Peretti, il magistrato più amato

"Elogio degli avvocati scritto da un giudice", l'opera di Domenico Peretti, il magistrato più amato

Domenico Riccardo Peretti Griva (Coassolo 1882-1962), per alcuni anni avvocato, poi magistrato fino a diventare Primo Presidente della Corte d'Appello. Amico di Ferruccio Parri, Norberto Bobbio, Piero Calamandrei, partecipò attivamente alla Resistenza in Piemonte. Fine giurista, autore di trattati e monografie  in tema di responsabilità civili nella circolazione, contratto d'impiego privato, infortuni sul lavoro, condominio di case.

da: Esperienze e riflessioni di un magistrato, Guanda, Modena 1953.

L'ELOGIO DEGLI AVVOCATI SCRITTO DA UN GIUDICE

Scrivo questo titolo, con meditata inversione dell' Elogio dei giudici scritto da un avvocato", di Piero Calamandrei, che con la grande deferenza, e sincera modestia, dimostrata per l'ordine giudiziario, ha mostrato di meritare altrettanta deferenza per sé e per la nobile classe da lui tanto degnamente rappresentata. L'avvocato risponde a un istituto assolutamente indispensabile per l'amministrazione della Giustizia in un Paese civile. Per la stessa natura dei suoi studi e della sua professione, l'avvocato presenta, in linea di massima, una personalità nutrita ad ampiezza di vedute e al culto della libertà.

Non per nulla Mussolini, assoluto e presuntuoso, non nascondeva la sua antipatia per gli avvocati, sentendo di venire da loro valutato assai al disotto del culto che egli si lusingava di godere fra le amorfe masse plaudenti. Egli deve essere quindi considerato, per intrinseca sua destinazione, come collaboratore della Giustizia. Pienamente consento col Calamandrei là dove egli dice: "le virtù più si onorano nei magistrati, la imparzialità, la resistenza a tutte le seduzioni del sentimento, e quella serena indifferenza, quasi sacerdotale, i più torbidi casi della vita purifica e ricompone sotto la rigida della legge, non brillerebbero come brillano, se, accanto ad esse, a loro maggior risalto, non potessero affermarsi, in contrasto con le virtù degli avvocati, che sono la passione della generosa lotta per il giusto la ribellione ad ogni soperchieria, e la tendenza, inversa a quella del giudice, ad ammollire sotto la fiamma del sentimento, il duro metallo delle leggi, per meglio formarle sulla viva realtà umana". Certo, nulla vi è di più bello, di più nobilmente umano, dell'avvocato che pone a profitto la sua intelligenza, la sua cultura, la sua passione per battersi, nel tempio della giustizia, per il trionfo della verità.

Io ho ammirato, durante il regime fascista, molti avvocati, rinunciare ai propri interessi immediati e mediati, correre il rischio di scoprire il loro disdegna per le gerarchie e per le disposizioni fasciste, per assumere coraggiosamente le difese dei perseguitati. In questo modo si realizzava degnamente la funzione dell'avvocato.

"E per il vero io non so che più nobile cosa si trovi che difendere i bisognosi nel cospetto dei pubblici magistrati! (Francesco Sansovino: "L'avvcato", Venezia, 1951; Ed. Le Monnier, curata da P. Calamandrei).

Certo, purtroppo, nella pratica, le cose camminano, per lo più, in modo assai diverso.

L'avvocato soffre, pure, talvolta, come il magistrato, la sua deformazione professionale, che gli attutisce la sensibilità. Egli ascrive sistematicamente a suo dovere il difendere il proprio cliente ad ogni costo, abbia, o non abbia, esso ragione. In tal modo resta piuttosto snaturata e snobilitata la missione dell'avvocato, che viene allora a porsi addirittura in antagonismo col concetto di collaborazione nei riguardi del magistrato. Bene ha detto, a questo proposito, il Senatore Giovanni Conti (Discorsi parlamentari): "L'avvocato opera in un ambiente di impurità: si salva se ha una costruzione morale solida capace di serbarla integra fino alla morte". L'ideale sarebbe che si seguisse il motto di Francesco Sansovino (op. cit.): "Usate ogni industria virtuosamente e ogni artificio per acquistarla vittoria, ogni volta però che voi abbiate ragione, perché io figuro che voi non dobbiate difendere il torto. Innanzi ch'accettiate la cause, considerate se le dovete accettare; dopo questo, avendole accettate, non pretermettete ciò ch'a quelle s'aspetta. Se vi conoscerete eccellente ingegno, non vi lasciate dominar dalla superbia, adoperando l'acutezza dell'intelletto in dimostrare una cosa per un'altra".



 Purtroppo, invece, succede spesso di constatare come, più un assunto e infondato, maggiori siano la pervicacia e lo sforzo dell'avvocato per farlo trionfare. Ciò mi fa ricordare che, dopo che ero entrato in magistratura avevo sentito dire che un magistrato del P. M., si era vantato di avere, con la sua eloquenza, ottenuto in Assise la condanna di un innocente. Può darsi, e mi auguro, che la voce fosse infondata, ché, altrimenti, ci sarebbe stato da inorridire di fronte a una deformazione  professionale giunta a un simile grado di cosciente cinismo. Per l'avvocato, naturalmente, il difendere una causa ingiusta è cosa meno grave, in quanto, nei suoi confronti, sussiste, in certo modo, oltre alla natura intrinseca della funzione, l'impegno privato e l'interesse individuale. Ma se e spiegabile, se non giustificabile, un simile traviamento dei diritti-doveri del difensore, tale traviamento non dovrebbe andare mai oltre l'accademico sforzo orale e scritto e sconfinare addirittura in un disonesto tentativo di traviamento dei fatti.  L'avvocato dovrebbe, a questo proposito, considerare che il comportamento leale finisce per giovargli, accattivandogli la fiducia del magistrato.

Come gli avvocati sono i migliori giudici dei magistrati, così questi hanno molti elementi per dedurre dalle risultanze di causa e dal correlativo comportamento dei difensori, buon criterio per una valutazione, sia tecnica, sia morale, di questi. E da tale valutazione consegue, per il giudice, la possibilità di considerare l'avvocato come collaboratore della giustizia, o, per contro, la tendenza a diffidarne, come di una sospettosa attività di Azzeccagarbugli.                                                                                                    Sappia dunque l'avvocato trarre opportuno criterio dai suddetti rilievi, per uniformarvi il proprio comportamento, che se, in qualche caso, può apparire per lui pregiudizievole, in linea generale gli può determinare, presso il magistrato una "buona stampa", assicurandogli, in linea generale, la fiducia del giudicante.  Pensi anche l'avvocato che la serenità e la correttezza del linguaggio, orale e scritto, sono sempre desiderabili: "temperatevi di far ingiuria alle persone, e abbiate per fermo che l'avversario si vince con le ragioni, non con le maldicenze" (Sansovino, op. cit.). Esclude il Candian ("L'avvocatura"), che si possa parlare di collaborazione dell'avvocato col magistrato, in quanto ciascuna parte coltiva un interesse suo proprio, antitetico con quello dell'altra. Il rilievo potrà considerarsi esatto dal punto di vista soggettivo, dato che l'avvocato non persegue già lo scopo di aiutare il giudice, bensì quello di favorire il più possibile la posizione del proprio cliente. Ma, se si prescinde dal "motivo" dell'attività dell'avvocato, bisogna convenire che, dal punto di vista obiettivo, tale attività può costituire una vera collaborazione perla ricerca della soluzione nella controversia, tanto più cospicua tale collaborazione, quanto più saranno elevate la bravura e la lealtà dell'avvocato stesso. Sono, cioè, i risultati concreti che contano, agli effetti della collaborazione. E, a cotesto effetto, possono persino confluire  le argomentazioni difettose della parte, dato che anche esse riescono spesso, per ragionamento contrapposto, a radicare una diversa opinione del giudicante.

Se l'avvocato deve essere riguardoso e leale nei riguardi del magistrato, questi deve essere munito, a sua volta, di un certo senso di comprensione nei confronti dell'avvocato, e darsi carico delle sue esigenze. Il giudice non deve essere presuntuosamente assoluto nella sue determinazioni. Egli deve pazientemente attendere di essere messo in condizioni di conoscere, non solo gli elementi della causa civile o penale, ma anche le argomentazioni che possono portare all'uno o all'altro avviso. Perciò ha sempre da ammettere la possibilità che un interlocutore giunga a convincerlo. Io ebbi da ammirare spesso la bravura di un avvocato che riusciva a rendermi molto perplesso, e, talora, impensatamente a decidermi, in contrasto con una mia precedente radicata convinzione.

E anche quando il magistrato si senta assolutamente sicuro del giudizio che sta per dare, non è il caso che si impazientisca per un'arringa o una comparsa che egli consideri oziose o troppo diffuse. Anche l'avvocato ha una propria personalità e delle proprie tendenze, un suo modo e una sua capacità, più o meno elevata, di intuizione e di espressione, di fronte alla quale il giudice non ha da atteggiarsi a superuomo. Pure l'educazione ha, a questo proposito, la sua importanza. Deve il magistrato riflettere che l'avvocato conosce assi più elementi della causa di quanti non ne conosce il giudice sulla base di aride risultanze formali degli atti, o di spesso insincere e, in ogni caso, insufficienti emergenze di un dibattimento.

L'avvocato ha conosciuto, soprattutto, e conosce, il cliente. Ne ha appreso tutte le più delicate e complesse circostanze che possono colorire una lite, o una attività delittuosa. Delle opportunità fiscali possono aver sconsigliato la produzione di documenti, i quali debbono considerarsi giuridicamente assenti dalla causa, ancorché magari siano irregolarmente trascritti in una comparsa. Sì sa bene: il magistrato deve solo giudicare sulla base delle legittime emergenze del processo, Ma, molte volte, può fare capolino magari inconsciamente una impressione, ricavata da una circostanza irregolarmente affacciata: così come il giudice può trarre una convinzione anche da un non descrivibile comportamento dell'imputato all'udienza, o da una sua significativa espressione di fronte a un piccolo incidente.

Ora, il magistrato deve darsi carico della frequente insufficienza delle sue cause di scienza e trarne argomento per non sottovalutare l'opera dell'avvocato che ha un preciso dovere, anche di coscienza, verso il proprio cliente e deve quindi fare ogni sforzo per farne trionfare, purché con mezzi leciti, l'assunto. Deve pensare il magistrato che, spesso, l'avvocato è legato, inesorabilmente, dal segreto professionale, e che, se la sua doverosa reticenza non può andare a favore del difeso, può darsi pure che essa porti inevitabilmente a precludere le esibizioni di elementi formali che caratterizzerebbero in tutt'altro modo un'azione.

 L'avvocato ha la sua missione e occorre rispettarla, anche quando esso non riesce a convincere, per l'impossibilità in cui si trova di sottoporre ufficialmente al giudice tutti gli elementi che sono a sua conoscenza. Può, allora, accadere, in una causa penale, che un innocente abbia dichiarato maldestramente delle circostanze inesatte, o ne abbia taciute di quelle vere nella convinzione che quelle gli giovassero e queste gli nocessero, e che gliene venga pregiudizio, sul riflesso di incoerenza e di contraddizioni. La difesa dell'avvocato può allora apparire artificiosa e inattendibile: non sarà mai abbastanza prudente, invece, l'apprezzamento del magistrato, che deve, non fermarsi alle prime impressioni, ma "ascoltare", senza impazienza, pensando che possa aver ragione quegli che, lì per lì, appare non averla.

Il giudice svolge la sua funzione quasi astrattamente, ancorché le dramatis personae siano presenti. Egli, a forza di giudicare, avrà perso un po' della sua scusabilità umana, uso ad applicare alla fattispecie, giuridicamente, le norme della legge, di fronte alle quali i giudicabili appaiono come contingenti pedine.  L'avvocato, invece, vive la passione della vicenda civile e penale: è la persona umana, nella vicenda, attiva o passiva, che lo richiede per averne la più efficace difesa. Egli è il confessore che analizza tutte le particolarità della confessione, per trarne argomento utile dagli elementi formali estranei. Egli persegue, spesso con grande nobiltà, una fede, quella di far trionfare una verità, e non sono rare le sofferenze sue quando ne resti deluso, magari con l'assillo della preoccupazione di non essere stato all'altezza del mandato. E'  vero che, talora, egli stesso resta vittima della sua buona fede, ingannato dalla malizia del cliente che ritiene, e non sempre ingiustificatamente, di aumentare le probabilità della sua vittoria, se riesce già a indurre in errore il proprio difensore.

Ricordo di aver dato a un avvocato principe, apprezzatissimo, del Foro Torinese, un grande dispiacere, per avere la Corte, su mia relazione, condannato un suo cliente, che egli riteneva innocente, mentre poi elementi successivi avevano poi sicuramente confermato il buon fondamento della sentenza. Detto avvocato, che forse presagiva il giudizio sfavorevole, non aveva avuto il coraggio di attendere l'entrata della Corte per la lettura della sentenza, e aveva, indubbiamente, sofferto dell'esito del processo, come di cosa che lo interessasse direttamente, avendo poi egli dichiarato che si trattava di una delle tre grosse sventure che gli erano occorse nella sua  lunga ed onorata vita di avvocato. Cotesti patemi d'animo sono frequenti negli avvocati, e il magistrato li deve apprezzare, traendone motivo per acuire il proprio scrupolo, anche se vi sia, fra gli avvocati, il cinico, l'azzeccagarbugli che trae motivo di soddisfazione solo dall'incremento del suo patrimonio e che si duole di pronuncia sfavorevole, non per motivi spirituali o morali, sentiti, ma esclusivamente perché gli riduce la misura del La maggior serenità viene al magistrato dalla spersonalizzazione suo verbo, ma cotesta posizione superiore privilegiata, non deve essergli fonte di insensibilità, e di disumana intolleranza.

E'  occorso qualche volta che si discutesse in Camera di Consiglio circa il maggior o minor fondamento di assunti svolti da un difensore, che si finisse per dargli ragione, ma per tutt'altri motivi da quelli da lui illustrati, e si concludesse col dire che si era data ragione a una parte, nonostante tutti gli sforzi del suo difensore. Poteva darsi che in simile apprezzamento fosse contenuta una fondata asserzione di inabilità dell'avvocato, ma poteva anche darsi che il giudizio costituisse una presuntuosa pretesa di infallibilità, che non era escluso che la Corte di Cassazione fosse poi per esautorare.

La giustizia non ha poi nulla da guadagnare nel tenersi il magistrato a sospettosa distanza, per principio, da tutti gli avvocati, come se essi fossero, per naturale destinazione, degli attentatori alla verità. Una consuetudine di cordialità giova, in primo luogo, a conferire grande serenità ai rapporti reciproci, e, soprattutto, a infondere nella gran parte degli avvocati, proprio quel senso di simpatia, di fiducia e di deferenza che serve a tener lontani gli attentati alla buona fede del giudicante da parte dei patroni. Io mi sono sempre attenuto a simile sistema e ritengo di averne tratto molto giovamento, tenendo, d'altra parte, improntate le relazioni col Foro a quella cordialità e a quella sincerità di rapporti che non possono non essere desiderabili fra così prossimi artefici della ricerca della verità giudiziale.

Mi è accaduto abbastanza spesso, ad esempio, che degli avvocati venissero a chiedermi il rinvio di un processo per ragioni professionali di cui io mi sono sempre dato serio carico, proprio per il rispetto che ho sempre mantenuto per la funzione e per la persona del difensore, anche se quelle ragioni fossero, per la prassi, dovute a eccessiva intransigenza burocratico-processuale di qualche Pubblico Ministero, inidonee a giustificare il rinvio. Quelle ragioni avrebbero potuto essere sostituite facilmente, e con più sicura portata, da un compiacente certificato medico riguardante una parte o lo stesso difensore. Ebbene, io avevo la soddisfazione di constatare che con me non si ricorreva a simili artifici, preferendosi un comportamento del tutto sincero, sul quale, quindi, io potevo far assegnanento nelle mie determinazioni.

La fiducia e la lealtà cui debbono ispirarsi i rapporti fra l'avvocato e il magistrato, non possono che elevare le funzioni, entrambe sacre, nel sostanziale interesse della giustizia. Non si raccomanderà mai abbastanza al magistrato di non credere, sistematicamente, alla superiorità della propria intelligenza e della propria cultura giuridica, in confronto a quelle degli avvocati: ché, spesso egli dovrebbe trarre, onestamente, delle intime, per sé mortificanti, ritrattazioni. E pensino i magistrati che i migliori e più coscienti giudici della loro della loro laboriosità, della loro educazione, della loro rettitudine saranno pur sempre gli avvocati che li possono seguire, talora inavvertitamente, in tutte le loro manifestazioni, meditate e istintive, essendo ultime anche meglio indicative.

 

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