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Commette reato il dentista che procede all'estrazione non necessaria di denti

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 I giudici della Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 38615 del 19 settembre 2019 hanno stabilito che il medico dentista prima di procedere alla estrazione dei denti di un paziente deve necessariamente procedere agli esami diagnostici e alle cure preventive. In caso contrario le eventuali complicazioni possono integrare il reato di lesioni colpose.

I Fatti

Con sentenza emessa in data 13 gennaio 2017 il Tribunale di Varese assolveva un medico dentista dal reato di cui all'art. 590 cod. pen. perché il fatto non costituisce reato.

All'imputato, era stato contestato di avere causato lesioni personali colpose ad una propria paziente consistite nell'avulsione di sette denti, tra i quali i due canini superiori con relativo supporto osseo preesistente.

I profili di colpa contestati al professionista consistevano: a) nell'avere omesso di informare la paziente in modo completo ed adeguato sugli effetti e sulle possibili controindicazioni del trattamento; b) nell'avere omesso di formulare la corretta diagnosi della malattia e del correlato trattamento sanitario non provvedendo alla prescrizione degli esami clinici e diagnostici richiesti dalla natura della patologia, tra cui le appropriate indagini radiografiche mirate e panoramiche con conseguente, sia pure evitabile, errore diagnostico e terapeutico; c) nell'avere estratto complessivamente, senza necessità terapeutica, sette denti tra cui due canini superiori con relativo supporto osseo preesistente. 

 Il giudice di primo grado, ha ritenuto infondate le accuse contestate al medico, in quanto le lesioni riportate dalla parte offesa erano da ricollegabile sì alle cure effettuate dall'imputato, ma che la paziente aveva contribuito all'evoluzione negativa con una scarsa cura dell'igiene

.Il Tribunale comunque chiariva che pur non risultando eseguita una radiografia prima della programmazione di qualsiasi intervento, il dentista era in possesso di una lastra risalente ad un anno prima dall'inizio delle cure.

Secondo il Tribunale, nonostante l'imputato avesse posto in essere una pratica aggressiva e non conservativa, non era possibile ravvisare profili di colpa nella sua condotta.

La sentenza veniva appellata dalla parte civile e la Corte di Appello di Milano, in riforma della pronuncia di primo grado, ha affermato la responsabilità ai fini civili, del dentista condannandolo al risarcimento dei danni sin favore della paziente con il pagamento di una provvisionale di euro 25.000.

I giudici di secondo grado, hanno effettuato una diversa valutazione delle risultanze probatorie, rilevando che le valutazioni liberatorie formulate nei confronti dell'imputato erano in contrasto con gli accertamenti svolti dal perito e dal consulente tecnico della parte civile.

In particolare si è rilevato che il CTU nel suo elaborato peritale ha posto in evidenza svariate omissioni e scorrettezze a carico dell'imputato: mancanza del consenso informato relativo

all'inserimento degli impianti, alle numerose estrazioni dentarie nonchè alle complicazioni successivamente presentatesi che avrebbero dovuto indurre a modificare completamente l'iter terapeutico.

La Corte di Appello ha osservato inoltre che, secondo quanto accertato dal perito, il dentista, prima di pianificare gli interventi, non aveva prescritto alla paziente gli esami clinici richiesti dalla natura del trattamento tra cui la radiografia panoramica della situazione iniziale. Ed ancora, è stato sottolineato che dalle emergenze processuali si evinceva che l'estrazione dei denti non era necessaria .

L'imputato decideva di impugnare la sentenza emessa dalla Corte territoriale di Milano, presentando ricorre per cassazione, deducendo quale unico motivo, l'inosservanza ed erronea applicazione di legge e il vizio motivazionale con riguardo alla valutazione delle prove dichiarative ritenute decisive del perito per violazione dell'art. 533, comma 1, cod. proc. pen., dell'art. 6 par. 3

lett.d) CEDU e della giurisprudenza di legittimità ed invoca, in particolare, l'applicazione dei principi di diritto contenuti nella sentenza della Suprema Corte a sezioni unite Dasgupta.

Il ricorrente lamenta che il giudice di appello ha proceduto ad una diversa valutazione delle risultanze processuali senza procedere alla rinnovazione dibattimentale. 

 Motivi della decisione

I giudici della Corte di Cassazione hanno dichiarato infondato il ricorso e confermato la sentenza Impugnata.

Innanzitutto i giudici della Quarta Sezione si sono soffermati sulla contestazione mossa dal ricorrente in ordine alla mancata rinnovazione dibattimentale da parte della Corte di Appello.I giudici di legittimità hanno che la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale" non è necessaria nel caso di mero "travisamento", della prova dichiarativa, dunque nell'ipotesi in cui la difformità cada sul significante (il documento) e non sul significato (il documentato) "per omissione, invenzione o falsificazione"

Tale indirizzo è stato ribadito anche dalla giurisprudenza di legittimità successiva (Sez. 5, n. 53415 del 18/06/2018, Rv. 274593; Sez. 6, n. 35899 del 30/05/2017, Rv. 270546; Sez. 5, n. 42746 del 09/05/2017, Rv. 271012; Sez. 5, n. 33272 del 28/03/2017, Rv. 270471) che ha affermato che il giudice d'appello nell'ipotesi di riforma della sentenza assolutoria di primo grado non è tenuto a procedere alla rinnovazione della prova dichiarativa quando non vengano messi in dubbio la credibilità dei testi o il contenuto delle loro deposizioni ma la decisione si fonda solo su una diversa valutazione del medesimo materiale probatorio utilizzato in primo grado.

Nel caso di specie la Corte di legittimità ha ritenuto che non gravasse sul giudice d'appello alcun obbligo di riassunzione delle dichiarazioni rese dal perito e pertanto il ricorso è stato rigettato.

Si allega sentenza

 

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