Quando si parla della Suprema Corte di cassazione, in molti sono portati a pensare a giudici anagraficamente maturi, e quindi poco sensibili alle evoluzioni dei costumi.
Ebbene, il provvedimento 5883/2018 depositato oggi dalla Sesta sezione civile della Suprema Corte, sembra essere fatto apposta per smontare tale assunto. Con questa pronuncia, che farà certamente discutere nei prossimi giorni, e non solo negli ambiti più propriamente giuridici, i giudici di legittimità hanno affermato, per la prima volta, il principio che, nel caso di mutamento di sesso, ad un giovane che sia ancora economicamente dipendente dai propri genitori deve essere concesso un tempo ulteriore - una sorta di periodo di grazia - nel cui corso egli possa continuare a godere del mantenimento della propria famiglia di origine, così da potersi più efficacemente calare nella propria nuova dimensione, sessuale e sociale, e prendere così le misure anche dal punto di vista della ricerca di una occupazione che gli consenta di fare a meno del mantenimento di papà e mamma.
Ma, attenzione, questo periodo di grazia non è affatto illimitato ma temporaneo.
Fuor di metafora, sarebbe sbagliato pensare che solo per il fatto di aver cambiato identità sessuale, lui o lei abbiano diritto alla prosecuzione del mantenimento a tempo indeterminato. Pertanto, dopo aver affermato il principio in precedenza riportato, i giudici del Palazzaccio ne hanno stabilito un secondo, affermando ex cathedra che il periodo di tolleranza va individuato in un triennio, trascorso il quale ciascuno deve provvedere al proprio mantenimento, quale che sia la propria identità sessuale e quale che sia il conflitto ancora eventualmente esistente ed i problemi che ne possano derivare.
Nel caso concluso con il provvedimento odiernamente in commento, la Suprema Corte di Cassazione si è trovata investita di una situazione sorta, appunto, a seguito della decisione di una ragazza di cambiare sesso diventando un "lui".
il tribunale di roma, nel 2014, aveva determinato in € 400 l´importo che, a titolo di mantenimento, il di lei padre avrebbe dovuto versargli per un triennio, in modo da consentire al giovane di adattarsi pienamente alla nuova sua situazione. Trascorsi i 3 anni, però, il padre si era stancato di dover continuare come se nulla fosse a versare l´assegno nella totale ed assoluta inerzia del figlio, e la Corte d´Appello capitolina gli aveva dato pienamente ragione avendo peraltro questi superato ampiamente i 30 anni.
Il caso e quindi è arrivato in piazza Cavour e i giudici, con il provvedimento in commento, hanno confermato in toto la pronuncia della Corte d´appello:
«In questo quad hanno affermato gli Ermellini - la decisione della Corte d´appello romana si basa sul presupposto del raggiungimento di una età superiore ai trent´anni e sull´assenza di deduzioni specifiche», del figlio, «circa la ricerca del lavoro e gli eventuali ostacoli incontrati in tale ricerca, così come sul decorso di un considerevole lasso di tempo dal compimento dell´iter di adeguamento dei caratteri sessuali all´identità di genere e sull´assenza di specifiche deduzioni circa il permanere di una situazione di vulnerabilità psicologica e sociale tale da compromettere la ricerca del lavoro».
La Suprema Corte, ricordato che nel giudizio di merito era stata «riconosciuta» al figlio «una situazione di vulnerabilità e di difficoltà psicologica e relazionale legata al difficile processo di adeguamento della propria identità di genere con evidenti conseguenze sull´inserimento sociale e nel mondo del lavoro, e quindi nella acquisizione di una posizione di indipendenza», ha tuttavia affermato che «la considerevole distanza temporale dalla conclusione di questo processo (lo) sottrae in difetto di prove contrarie, alla pregressa situazione di difficoltà».
Per lui, quindi, difficoltà o meno, dopo 3 anni È giunta l´ora di cominciare a sbracciarsi le maniche!