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Cara Collega, altro che telefonino, quel pugno va compreso.... Alex Corlazzoli: "Poniamoci delle domande"

Alex Corlazzoli è giornalista, scrittore e maestro. Collabora con "Altreconomia" e altre riviste. Insegna nella scuola primaria nella frazione Bottaiano di Ricengo e a Salvirola, in provincia di Cremona.
Qui interviene, rispondendo a Claudia Pepe, che su Lettera43 aveva scritto una lettera immaginaria di quell´insegnante (che riportiamo integralmente a seguire) a proposito del pugno sferrato da uno studente quattordicenne a un´insegnante in una scuola sarda. Il problema non è il cellulare, dice Corlazzoli, quel pugno va compreso, e bisogna farsi delle domande.
Si tratta di una presa di posizione che non riusciamo a condividere e che non mancherà di suscitare polemiche perché nell´intervento del giornalista c´è tutto, meno che, a nostro avviso, una eguale comprensione per la insegnante colpita, che ha subito una violenza che deve allarmare e che non può e non deve essere giustificata aprioristicamente, magari attribuendo alla stessa o alla Scuola compiti propri di famiglie che stentano ad esercitare i compiti educativi che ad esse competono.
Ecco comunque la lettera di Corlazzoli:
Cara collega,
ho letto la lettera che hai scritto dopo quanto è accaduto alla professoressa di Cagliari, che si è presa un pugno in faccia dal suo alunno. Ho letto anche i commenti in Rete: un esercito di indignati contro il 14enne. Tutte queste parole dovrebbero servire a noi docenti ma anche ai dirigenti. Dovrebbero farci porre alcune domande che vanno oltre il tuo legittimo sfogo che abbiamo il dovere di ascoltare. Tu, mettendo i panni della professoressa di Cagliari hai scritto:
"Quel giorno sono entrata in classe, un mio studente di 14anni stava utilizzando il cellulare. In tutti i regolamenti scolastici l´uso del cellulare non è consentito durante le ore di lezione. L´ho rimproverato. Però non mi aspettavo quel pugno sul mio viso. No, non mi sarei mai aspettata che un mio allievo, un ragazzo che tante volte avevo aiutato, compreso, capito, sferrasse su di me tutta la sua rabbia. Ho perso l´equilibrio, sono caduta a terra e sono svenuta per alcuni secondi. Non mi ricordo chi mi aiutato. Ero a terra, in balia di un mondo che mi vomitava addosso il suo malessere. È arrivata l´ambulanza, i carabinieri e mi hanno portata in ospedale.
Nel tragitto ho pensato a tutto il mio passato, a tutto quello che la Scuola è diventata. Mi sono resa conto che siamo nelle mani di una società che partorisce violenza senza pensare di arginarla. Un mondo che non capisce questi ragazzi. Vittime di una collettività malata, infettata, contagiosa. Ragazzi figli di una classe genitoriale troppo accondiscendente e permissiva. Ma la colpa non è solo della famiglia. La vita ha colpito anche loro con i suoi tentacoli malati e squilibrati. Mentre ero in barella, non trovavo parole per l´imbarbarimento della società e, nonostante il dolore aumentasse, provavo tristezza per quei genitori che difendono a spada tratta i figli.
Il significato della storia, della memoria e del nostro futuro, risiede nell´educazione".
Ora, credo sarà chiaro a tutti che il problema non è il cellulare. Non credo di dover spendere molte righe per spiegare che a nulla servirebbe puntare il dito contro la tecnologia in classe. Basta un vecchio proverbio: "Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito".
Ripartiamo, invece, dalle parole di questa insegnate per farci qualche domanda:
1. Perché la scuola è diventata così?
2. La professoressa scrive: "Siamo nelle mani di una società..."; "un mondo che non capisce questi ragazzi"; "Vittime di una collettività malata.....". Chi è questa signora Società? Chi è questo signor Mondo? Chi è la signorina Collettività? Conoscete forse il loro indirizzo? Possiamo andare a bussare alla loro porta? Per anni sono cresciuto con il ritornello di mio padre, di mio nonno, di mia madre che per qualsiasi cosa dicevano "E´ lo Stato..."; "Tutta colpa dello Stato". Lo Stato, la società, la collettività, il mondo siamo noi.
3) "Ragazzi figli una classe genitoriale troppo accondiscendente. Ma la colpa non è solo della famiglia". Certo, giusto. E allora di chi è questa colpa? Non è della famiglia, non è della scuola. Di chi è? E´ soprattutto qual è questa colpa?
Quel pugno sferrato alla professoressa è il simbolo di un gesto sferrato a ciascuno di noi. In quel pugno c´è un rifiuto, c´è la non condivisione, c´è la rabbia. Quel pugno non può essere "punito" con qualche giorno di sospensione o con un cinque in condotta o con una bocciatura. Quell´atto di violenza va compreso nella sua profondità.
L´articolo 27 della Costituzione ci suggerisce di puntare alla "rieducazione" di chi compie un reato non solo alla sua condanna. Ecco perché mi auguro che quel ragazzino di 14 anni non venga "rifiutato" dalla scuola, ma possa trovare qualcuno che lo aiuti a capire l´errore, che lo possa guidare a ritrovare la serenità che sicuramente ha perso. Quando sento dirigenti che si vantano di "espellere" i ragazzi della scuola, farei scrivere loro dieci volte sul quaderno le parole di don Lorenzo Milani: "Qualche volta viene la tentazione di levarseli da torno. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. E´ un ospedale che cura i sani e respinge i malati".
Ciò che dev´essere chiaro a noi "grandi" è un´altra cosa. La scuola non è un luogo per missionari, per uomini e donne che hanno buon cuore e sanno la materia. Non basta. Da sempre (ma non si è mai capito) la scuola è una palestra di vita. L´abbiamo dimenticato. Quel ragazzo a 14 anni ha sferrato un pugno alla sua professoressa perché qualcuno prima non ha fatto quel che doveva fare con lui, perché anni prima non ha incontrato chi lo ha amato.
Non mi interessa puntare il dito contro un´istituzione o l´altra. Non è questo il problema. So solo che questo è il risultato di una scuola che ha dimenticato, fin dalla primaria, di insegnare dei valori. Troppo preoccupati fin dai primi anni di scuola a fare verifiche, test invalsi, a valutare la performance, a selezionare i migliori e a etichettare i peggiori, abbiamo dimenticato di trascorrere del tempo con loro a parlare di ciò che accade. Non abbiamo più "perso" tempo ad ascoltarli ("Bisogna fare il programma"; "Bisogna fare la verifica, il test d´ingresso"). Abbiamo creato una scuola che non amano, che non apprezzano, che rifiutano prendendo in mano un cellulare o imbrattando il bagno o altro ancora.
Se continueremo su questa strada continueremo a prendere pugni in faccia. Quel gesto non si ripeterà più se ogni maestro, maestra inizierà a riflettere su qual è il suo ruolo e qual è quello di "questa" scuola. Forse servirebbe a molti fare l´esperienza del maestro Alberto Manzi che fece il suo primo incontro con la scuola in carcere e fu costretto a "giocarsela" nel vero senso della parola per conquistare i suoi alunni.
*scritto da Alex Corlazzoli, pubblicato ne Il Fatto Quotidiano, 9/10/2017
LA LETTERA DI CLAUDIA PEPE
Sono entrata in aula.
Io sono insegnante in un Istituto Alberghiero di Monserrato, in provincia di Cagliari. Sono entrata in aula, già prostrata dal dolore in cui la violenza aveva pervaso la mia Scuola. Prima una lite tra due studenti fuori e dentro l´istituto, sedata solo dall´intervento dei Carabinieri. Per un´insegnante vedere le forze dell´ordine entrare nella propria "casa", ti fa capire che proprio quei ragazzi in cui dovremo appoggiare le nostre speranze, sono già perduti.
Ho pensato molto, ho cercato di capire, e ho pensato che avrei fatto sempre e comunque il mio dovere. Il mio dovere deve essere sempre rispettare al massimo la mia professione. La mia professione e me lo ripeto ogni giorno, non è una missione, non è un apostolato, non può essere un centro missionario per ragazzi che nel loro passato e nel loro presente, usano la violenza come modus vivendi. E non è una violenza nata con loro, ma con la loro storia e il loro passato.
Quel giorno sono entrata in classe, un mio studente di 14anni stava utilizzando il cellulare.
In tutti i regolamenti scolastici l´uso del cellulare non è consentito durante le ore di lezione. L´ho rimproverato. Però non mi aspettavo quel pugno sul mio viso. No, non mi sarei mai aspettata che un mio allievo, un ragazzo che tante volte avevo aiutato, compreso, capito, sferrasse su di me tutta la sua rabbia. Ho perso l´equilibrio, sono caduta a terra e sono svenuta per alcuni secondi. Non mi ricordo chi mi aiutato.
Ero a terra, in balia di un mondo che mi vomitava addosso il suo malessere. È arrivata l´ambulanza, i carabinieri e mi hanno portata in ospedale. Nel tragitto ho pensato a tutto il mio passato, a tutto quello che la Scuola è diventata. Mi sono resa conto che siamo in nelle mani di una società che partorisce violenza senza pensare di arginarla. Un mondo che non capisce questi ragazzi. Vittime di una collettività malata, infettata, contagiosa.
Ragazzi figli di una classe genitoriale troppo accondiscendente e permissiva. Ma la colpa non è solo della famiglia.
La vita ha colpito anche loro con i suoi tentacoli malati e squilibrati. Mentre ero in barella, non trovavo parole per l´imbarbarimento della società, e nonostante il dolore aumentasse, provavo tristezza per quei genitori che difendono a spada tratta i figli. Il significato della storia, della memoria e del nostro futuro, risiede nell´educazione.
Mentre il mio viso si gonfiava pensavo che sono un pubblico ufficiale. Anche se la guancia mi faceva male mi sono messa a ridere: "Ma quale pubblico e quale ufficiale? "Noi siamo finiti nel substrato di una cultura che non è più degna di questa parola. Siamo diventati servi dell´ignoranza, dell´analfabetismo, dell´incompetenza. Penso che avrò un processo, forse mi accuseranno, troveranno le colpe che non ho commesso. Perché è così che succede. Ormai siamo colpevoli di ogni cosa, noi insegnanti. Ma la colpa sovrana, è di essere insegnanti e soprattutto di esistere. Forza, toglieteci di torno, tappateci la bocca, bendate i nostri occhi, riduceteci a sordi, a malati mentali, a residui della società.
Sono in barella e penso che dovrò probabilmente avere un processo per aver fatto il mio dovere, ma il mio dovere è anche andare avanti contro tutto.
Contro una "Buona scuola" che ci ha assassinati come intellettuali, contro una legge che vuole lo smartphone in classe, contro quei genitori che difendono a spada tratta i figli.
Ora sto arrivando all´ospedale e mentre il mio occhio pulsa, mi rammento che negli anni ´60, ´70, ´80 se tornavi a casa con una nota, i genitori prendevano sempre la parte dei professori e ora siamo arrivati alla violenza fisica contro gli insegnanti. Forse perché anche noi ce la cerchiamo, anche noi provochiamo, anche noi sfidiamo le tenebre di questa società. È così, oggi, che mi trovo buttata su questa barella, coperta di lacrime di umiliazione.
Mentre arrivo all´ospedale la mia mente vagava. Pensavo che oggi si guarda più al buon nome della scuola che a salvaguardare un docente. Ecco, mi stanno trasportando in pronto soccorso e penso: "Di cosa ci meravigliamo? I docenti sono al centro di una campagna denigratoria: ruolo, autorevolezza, competenze e modalità operative. Poi se uno studente tira un pugno all´insegnante, ci meravigliamo? Tutto bene, non è successo nulla. È solo un insegnante."
Adesso sono stanca, non voglio pensare a nulla, non voglio pensare che la mia vita sia questa. Ho un occhio nero, ma sono un´insegnante. Ho la mandibola che mi fa male, ma sono un´insegnante. Ho il cuore spaccato. Ma sono solo un´insegnante.
(Lettera43 scritto da Claudia Pepe)

 

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