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Avvocati. Violazione dell'obbligo di retribuire il domiciliatario e applicazione della sanzione ridotta

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 Fonte: https://www.codicedeontologico-cnf.it

Con sentenza n.245 del 14 novembre 2023 il Consiglio Nazionale Forense ha ribadito l'obbligo dell'avvocato di provvedere a retribuire il collega domiciliatario che abbia scelto o incaricato direttamente di esercitare le funzioni di rappresentanza o assistenza ed ha analizzato la possibilità dell'applicazione della sanzione ridotta ex art.22 cdf.

Analizziamo l'iter logico-giuridico seguito dal Consiglio.

I fatti del procedimento

Il CDD ha applicato la sanzione dell'avvertimento nei confronti di un avvocato il quale non ha corrisposto il dovuto compenso per le prestazioni professionali svolte dal collega domiciliatario in alcuni procedimenti pendenti innanzi il Tribunale. La condotta dell'incolpato è stata ritenuta posta in essere in violazione

  • dell'art.43 del codice deontologico che prevede l'obbligo dell'avvocato di soddisfare le prestazioni affidate ad altro collega, stabilendo per la violazione del suddetto obbligo l'applicazione della sanzione disciplinare della censura e
  • dei doveri di lealtà e correttezza verso i colleghi ex art.19 del codice deontologico.

Nel corso dell'istruttoria 1) l'incolpato si è difeso sostenendo di aver scelto il nominativo del collega nell'elenco dei professionisti convenzionati con un terzo soggetto, che a suo parere sarebbe il reale soggetto tenuto al pagamento dei compensi del collega; 2) mentre il domiciliatario ha depositato la sentenza definitiva del Giudice di Pace che condannava l'incolpato a corrispondergli i compensi professionali per le attività svolte.

L'incolpato ha impugnato la decisione contestando la sussistenza dell'illecito disciplinare e chiedendo la riduzione della sanzione che l'art.22 co.4 CDF prevede per i casi di infrazioni lievi e scusabili.

A sostegno delle sue ragioni il ricorrente ha negato la natura diretta dell'incarico affidato al collega domiciliatario sostenendo che il rapporto tra i due colleghi non deve essere ricondotto allo schema classico della domiciliazione su base "fiduciaria", in quanto consisterebbe in un rapporto "mediato" da altro soggetto di cui entrambi i legali erano avvocati fiduciari.  

 La decisione del Consiglio Nazionale Forense

Il Consiglio non ha ritenuto fondata la tesi sostenuta dal ricorrente. Infatti il Consiglio ha rilevato come il CDD abbia fondato la propria motivazione su un titolo giudiziale che ha accertato in via definitiva la sussistenza dell'obbligo di pagamento del ricorrente nei confronti del domiciliatario.

Il suddetto titolo giudiziale è costituito dalla sentenza diventata definitiva poiché non impugnata, con cui il Giudice di Pace aveva condannato il ricorrente a corrispondere al collega domiciliatario i compensi professionali. Ebbene questa sentenza a parere del Consiglio rappresenta un "dato documentale" fondamentale nella ricostruzione dei rapporti tra i due colleghi, ai fini non solo della sussistenza del credito domiciliatario, ma anche dell'individuazione del ricorrente quale soggetto tenuto all'adempimento dell'obbligazione di pagamento. Infatti, non avendo il ricorrente impugnato la decisione del Giudice di Pace, gli aspetti civilistici della sussistenza del credito e della qualificazione ricorrente quale debitore del collega risultano coperti da giudicato. Ne discende che non è corretto sostenere che al pagamento del domiciliatario avrebbe dovuto provvedere un altro soggetto. Tra l'altro anche la circostanza che il domiciliatario fosse inserito nella lista dei legali procuratori generali di un terzo non è idonea ad inficiare la posizione di debitore del ricorrente, in quanto tale posizione emerge dal giudicato civile.

Tra l'altro lo stesso ricorrente comparendo personalmente dinanzi al Giudice di Pace si era dichiarato disponibile a corrispondere i compensi al collega non appena il terzo avesse provveduto a saldare le sue competenze nei suoi confronti.

 Quanto alla misura della sanzione da applicare in concreto, il Consiglio ha rammentato che

  • la sanzione deve essere commisurata alla gravità del fatto, al grado della colpa, alla eventuale sussistenza del dolo ed alla sua intensità, al comportamento dell'incolpato, precedente e successivo al fatto, avuto riguardo alle circostanze, soggettive ed oggettive, nel cui contesto è avvenuta la violazione" (art. 21 co. 3 c.d.f.);
  • la violazione dell'art.43 CDF è punita con la sanzione edittale della censura, in considerazione del disvalore attribuito alla particolare condotta che lede la correttezza dei rapporti tra colleghi; sanzione edittale che, ai sensi dell'art. 22, co.3, CDF, può essere attenuata nell'avvertimento e aggravata nella sospensione non superiore ad un anno.

Nel caso di specie il CDD in considerazione del comportamento processuale ricorrente, della sua ammissione di responsabilità "senza mistificazioni", delle particolari circostanze della vicenda e dell'assenza di precedenti disciplinari, ha ritenuto sussistenti le condizioni oggettive e soggettive per ritenere la condotta non grave e così applicare la sanzione attenuata.

Risulta evidente a parere del Consiglio che al ricorrente sia già stata applicata la sanzione minima prevista per la violazione di cui egli si è reso responsabile e rappresentata dall'avvertimento e che tale sanzione non può essere ulteriormente mitigata al richiamo verbale in considerazione della sanzione edittale indicata nell'art. 43 CDF e dei limiti di commisurazione al caso concreto fissati nell'art. 22, co.3, CDF.

Per questi motivi il Consiglio Nazionale Forense ha rigettato il ricorso.

 

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