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L'illiceità disciplinare del comportamento posto in essere dal professionista deve essere valutata solo in relazione alla sua idoneità a ledere la dignità e il decoro professionale, indipendentemente dal rilievo che tali comportamenti assumano sul piano civile o penale.
Questo è quanto ha statuito la Corte di Cassazione, con sentenza n. 11168 del 6 aprile 2022 (fonte: http://www.italgiure.giustizia.it/sncass/).
Ma vediamo nel dettaglio la questione sottoposta all'esame dei Giudici di legittimità.
I fatti di causa
Il ricorrente è un avvocato che ha subito un esposto dai propri clienti in quanto da questi ultimi incolpato:
Il locale Consiglio distrettuale di disciplina ha applicato al ricorrente la sanzione della sospensione dall'esercizio dell'attività professionale per anni uno. Il provvedimento sanzionatorio è stato impugnato dal ricorrente dinanzi al Consiglio nazionale forense. In buona sostanza, secondo il ricorrente, va esclusa la sua responsabilità, giacché la sua obbligazione verso i clienti si sarebbe estinta per volontà di legge a seguito della compensazione legale. Il Consiglio nazionale forense ha respinto l'impugnazione del ricorrente.
Il caso è giunto dinanzi alla Corte di Cassazione.
Ripercorriamo l'iter logico-giuridico seguito da quest'ultima autorità.
La decisione della SC
Innanzitutto la Corte di Cassazione fa rilevare che in base all'art. 31 del codice deontologico forense l'avvocato è tenuto a mettere immediatamente a disposizione della parte assistita le somme, riscosse per conto di questa, che possono essere oggetto di lecita compensazione solo in presenza di preventivo ed inequivoco consenso prestato dal cliente. Detta norma e tutte quelle del codice deontologico costituiscono fonti normative integrative del precetto legislativo che attribuisce al Consiglio nazionale forense il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale appartenente all'ordinamento generale dello Stato, e come tali sono interpretabili direttamente dalla Corte di legittimità (Cass. Sez. U. 20 dicembre 2007, n. 26810; sulla natura normativa, ancorché integrativa, delle richiamate disposizioni, cfr. pure: Cass. Sez. U. 25 marzo 2019, n. 8313; Cass. Sez. U. 7 luglio 2009, n. 15852). Orbene, ad avviso della Suprema Corte, bene ha agito il Consiglio nazionale forense nel caso di specie in quanto l'art. 31 suddetto che prevede il consenso per le somme che possono essere trattenute dall'avvocato a titolo di compensazione, non si presta a estensioni analogiche atteso che la norma disciplinare in questione e la sua operatività non possono venir meno solo in presenza dei presupposti per la compensazione legale e in assenza di consenso del cliente.
È vero che è stato individuato un punto di intersezione tra deontologia e disciplina codicistica della compensazione in quanto la condotta dell'avvocato consistente nella mancata messa a disposizione del cliente delle somme riscosse per conto dello stesso (in base al vigente art. 31 del codice deontologico) è considerata, da una parte della dottrina, come ipotesi rientrante nella previsione dell'art. 1246, n. 5, c.c., secondo cui la compensazione non opera in presenza di un divieto stabilito dalla legge, ma è altrettanto vero che a prescindere dalla individuazione di tale punto di intersezione, è da osservare che l'istituto della compensazione non potrebbe mai escludere l'illecito disciplinare contestato al ricorrente. La deontologia forense è retta da precetti speciali suoi propri, che definiscono la correttezza e la lealtà dell'operato dell'avvocato: precetti consistenti nell'imposizione di condotte, positive o astensive, che le norme dell'ordinamento giuridico generale possono in concreto non richiedere, siccome non preordinate all'obiettivo di assicurare l'etica dei comportamenti del professionista; ciò vale, in particolare, per le norme civili sulla compensazione: istituto, questo, che assolve a funzioni sue proprie, tra cui, primariamente, quella di assecondare una elementare esigenza di economicità del sistema. Ne consegue che, dal punto di vista deontologico, pur in presenza dei presupposti per la compensazione, l'illecito disciplinare sussiste se l'avvocato trattiene le somme, senza consenso del cliente. Orbene, tornando al caso di specie, nell'ipotesi in esame si è in presenza di una condotta connotata dalla continuità della violazione deontologica, ossia appropriazione di somme del cliente e omissione di restituzione di somme di pertinenza di quest'ultimo, senza preventiva autorizzazione della parte assistita. Una condotta questa che, pure astraendo dalla precisa estensione applicativa delle regole sulla compensazione, non può far venir meno l'illecito disciplinare di omessa e ritardata consegna delle somme riscosse per conto del cliente. Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, pertanto, il Giudici di legittimità hanno respinto il ricorso.
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Il mio nome è Rosalba Sblendorio. Sono una persona estroversa e mi piace il contatto con la gente. Amo leggere, ascoltare musica e viaggiare alla scoperta delle bellezze del nostro territorio. Adoro rigenerarmi, immergendomi nella natura e per questo, quando posso, partecipo ad escursioni per principianti. Ho esercitato la professione da avvocato nel foro di Bari. Per molti anni ho collaborato con uno Studio legale internazionale, specializzato in diritto industriale, presso il cui Ufficio di Bari sono stata responsabile del dipartimento civile e commerciale. Mi sono occupata prevalentemente di diritto civile, diritto commerciale e diritto della proprietà intellettuale.