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Attribuzione tamponi Covid 19 a strutture sanitarie private: dipende dai contesti territoriali epidemiologici

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Negare alle strutture private operanti nel settore delle analisi di test di laboratorio di eseguire tamponi per la individuazione della presenza dell'infezione da SARS-CoV-2, per lasciare detta esecuzione alla competenza della regione, non significa negare la reputazione e la piena credibilità di dette strutture. E ciò anche se altre regioni hanno consentito alle strutture private l'effettuazione degli esami – tamponi COVID 19. La scelta di accentrare tali esami in capo all'ente regionale dipende dallo stato delle risultanze e delle valutazioni ad oggi, non immutabili in futuro, che appaiono comprensibilmente diverse da regione a regione e che possono giustificare ragionevolmente una scelta di concentrazione diversa.

Questo è quanto ha statuito il Consiglio di Stato, con decreto n. 3769 del 26 giugno 2020.

Ma vediamo nel dettaglio la questione sottoposta all'esame dei Giudici amministrativi.

I fatti di causa.

La ricorrente, struttura sanitaria privata autorizzata all'esercizio di laboratorio d'analisi, è iscritta nell'elenco dei laboratori regionali di analisi in grado di effettuare i test sierologici per l'identificazione di anticorpi contro il virus SARS-CoV-2. Seppure specializzata in citogenetica e biologia molecolare, con nota regionale, essa, come altri laboratori d'analisi privati inseriti nel predetto elenco, non è stata autorizzata all'esecuzione dei tamponi nasofaringei e/p orofaringei per la diagnosi di laboratorio del virus SARS –CoV-2. In buona sostanza, la regione in cui opera la ricorrente, ha concentrato l'esecuzione dei tamponi in questione nei laboratori facenti parte del circuito regionale, nel quale la ricorrente, nonostante la richiesta inoltrata, non risulta essere stata inserita. Il caso è giunto dinanzi al Tar, il quale ha affermato che il «divieto per le strutture sanitarie private di eseguire test molecolari contrasta con il principio di libertà dell'utente nella scelta della struttura di fiducia per la fruizione dell'assistenza sanitaria». 

Tale divieto, a parere dei Giudici di primo grado, sarebbe legittimo solo in presenza di ragioni effettive che «giustifichino la restrizione mediante un adeguato apparato motivazionale a supporto del provvedimento, e nella presupposta, oggettiva, valutazione dell'interesse pubblico finalizzato alla tutela del diritto alla salute (Cons. Stato, Sez. III, 7 marzo 2019, n. 1589, in cui sono indicati i numerosi precedenti della Corte di Giustizia UE in tema di limiti al potere pubblico di regolazione dell'attività sanitaria privata)». Secondo il Tar, nel caso di specie, poiché nel bilanciamento degli interessi coinvolti, l'interesse pubblico prevalente sarebbe quello di effettuare il maggior numero di tamponi, con la minor incidenza possibile sulle finanze dello Stato, andrebbe valutata positivamente la posizione assunta dalla ricorrente. E così i Giudici di prime cure hanno accolto la domanda cautelare di quest'ultima (Tar Lazio, ord. n. 4350/2020). La regione ha impugnato il provvedimento del Tar dinanzi al Consiglio di Stato.

Ripercorriamo l'iter-logico giuridico di quest'ultima autorità giudiziaria.

La decisione del CdS

Ad avviso del Consiglio di Stato l'ordinanza del Tar va riformata. Vediamo perché.

Secondo i Giudici d'appello, se da un lato è vero che l'esigenza nella fase emergenziale è stata quella di aumentare il numero di tamponi e di ridurre i tempi di effettuazione, dall'altro, occorre tener presente che nella regione in cui opera la ricorrente, i dati statistici settimanali hanno mostrato il numero dei test effettuato e la riduzione del tempo occorrente per il test in questione. 

Tali dati se comparati al trend di contagi decrescente nella predetta regione, giustificherebbe il mancato ricorso al contributo delle strutture sanitarie private in termini di decisiva utilità per il conseguimento degli obiettivi generali stabiliti. A questo deve aggiungersi il fatto che data l'esistenza di molti falsi positivi e negativi, ai fini di una riduzione della loro percentuale, costituirebbe valore aggiunto un sistema in cui si centralizzano, con una canalizzazione governata in entrata e in uscita, in un circuito omogeneo e di elevato valore scientifico pubblico, la raccolta degli esiti, la ripetizione e gli ulteriori approfondimenti ove occorrenti, la tracciatura, la comunicazione "unitaria" ad enti nazionali e internazionali; sistema qual è quello regionale. D'altro canto, la questione in oggetto è delicata in quanto i risultati dei test vanno a incidere su posizioni di diritto e libertà individuale. Con l'ovvia conseguenza che, a parere dei Giudici d'appello, alla regione è sembrato doveroso assumersi la responsabilità di un eventuale falso risultato. Tutto questo, tuttavia, secondo il Consiglio di Stato, non significa negare la reputazione e la credibilità della ricorrente in qualità di struttura privata operante con successo in molte altre aree dell'analisi di test di laboratorio. Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, pertanto, ad avviso dei Giudici d'appello, la scelta regionale appare corretta anche se, in altre regioni, ai laboratori d'analisi privati è stata attribuita la possibilità di effettuare i test in oggetto. E ciò in considerazione del fatto che le scelte regionali dipendono dai contesti territoriali epidemiologici e a parere del Consiglio di Stato, nel caso di specie, le scelte contestate dalla ricorrente in realtà sono coerenti con il contesto epidemiologico territoriale, con l'ovvia conseguenza che l'ordinanza del Tar impugnata va riformata. 

 

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