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Assegno divorzile: va ridotto alla moglie fisioterapista che non lavora privatamente

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Con l'ordinanza n. 26389 depositata lo scorso 29 settembre, la VI sezione civile della Corte di Cassazione, nell'esaminare il diritto di una donna di percepire l'assegno divorzile, ha confermato le statuizioni rese dai giudici di merito che avevano ridotto l' assegno essendo emerso che l'ex moglie era in possesso di una laurea abilitante in fisioterapia e, in passato, aveva esercitato l'attività di istruttrice di pilates con corsi presso la casa coniugale, sicché poteva svolgere attività di fisioterapista anche privatamente avendone conseguito la professionalità, così godendo di un'esistenza dignitosa ed adeguata.

Nel caso sottoposto all'attenzione della Cassazione, il Tribunale di Salerno pronunciava lo scioglimento del matrimonio di una coppia di coniugi, ponendo a carico del marito il pagamento di un assegno divorzile di 1.400 Euro mensili.

La pronuncia veniva appellata dall'uomo per ottenere la revoca dell'assegno divorzile ed, in via subordinata, la sua riduzione; a tal fine evidenziava come l'ex moglie fosse in possesso di una laurea abilitante in fisioterapia e che esercitava l'attività di istruttrice di pilates con corsi presso la casa coniugale.

La Corte di Appello di Salerno – in accoglimento della domanda subordinata dell'appellante – riduceva l'assegno di divorzio in Euro 900,00, rilevando che l'appellata non avesse fornito la prova circa la mancanza di sufficienti risorse economiche e dell'impossibilità di procurarsele, essendo al contrario emerso che la stessa fosse laureata in fisioterapia, godesse di un buono stato di salute e poteva svolgere attività di fisioterapista anche privatamente avendone conseguito la professionalità, così godendo di un'esistenza dignitosa ed adeguata. 

Ricorrendo in Cassazione, la donna censurava la decisione della Corte di merito per violazione e falsa applicazione dell'art. 5 della legge n. 898 del 1970, per aver il giudice di appello erroneamente attribuito all'assegno divorzile una mera funzione assistenziale e non anche perequativo-compensativa.

Secondo la difesa della ricorrente, la Corte di Appello avrebbe dovuto verificare se l'inadeguatezza dei mezzi e l'incapacità oggettiva di procurarseli, per l'ex moglie, fosse dovuta alle scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio; la donna si lamentava, quindi, che la quantificazione dell'assegno divorzile non avesse tenuto conto dei compiti e dei ruoli svolti da entrambi i coniugi durante la pregressa vita matrimoniale, della solidarietà esistente tra i medesimi sia nella fase coniugale sia in quella post-coniugale e, più nel dettaglio, del sacrificio delle aspettative professionali e reddituali della moglie in funzione dell'assunzione del ruolo endofamiliare.

La Cassazione non condivide le difese formulate dalla ricorrente.

I Supremi Giudici ricordano, infatti, che con il noto arresto delle Sezioni Unite del 2018 (pronuncia n. 18287/2018), si è attribuito all'assegno divorzile una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, al fine di consentire al coniuge richiedente il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate. 

In particolare, la Cassazione ha ribadito che il riconoscimento dell'assegno di divorzio in favore dell'ex coniuge richiede l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge istante, e dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive: il giudizio deve essere espresso alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all'età dell'avente diritto.

Con specifico riferimento al caso di specie, gli Ermellini evidenziano come la sentenza impugnata – uniformandosi all'ultimo arresto delle Sezioni Unite - si sia fondata non su una mera equiparazione economica dei patrimoni dei due coniugi, bensì su una pluralità di fattori, quali la capacità della moglie di svolgere attività lavorativa quale fisioterapista, la lunga durata del matrimonio, la contribuzione della ricorrente al successo professionale del marito ed alla formazione del cospicuo patrimonio immobiliare, l'agiato tenore di vita vissuto dalla famiglia nel suo complesso durante la convivenza matrimoniale e la posizione economica e professionale del marito.

Alla luce di tanto, la Cassazione rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione e al versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso. 

 

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