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Arturo Carlo Jemolo, il grande Avvocato che amava raccontare il borgo dell'infanzia

Arturo Carlo Jemolo, il grande Avvocato che amava raccontare il borgo dell'infanzia

Arturo Carlo Jemolo (Roma 1891-1981) avvocato del Foro di Roma, giurista e storico, docente di diritto ecclesiastico. Autore di numerosi saggi,  vincitore nel 1949 del Premio Viareggio per la sezione saggistica,  con "Stato e Chiesa in Italia negli ultimi cento anni " (Einaudi).

da: Anni di prova, Neri Pozza, Vicenza 1969.

Augusto Monti rievocando le storie di suo padre ci ha descritto un vivace quadro di vita di un angolo tra Piemonte e Liguria, la valle del Ristagno, nei lontani settant'anni che corrono tra i 1814 ed il 1884.

Attraverso i ricordi familiari non avrei nulla di simile a narrare. Le famiglie modeste non sogliono avere cronache che possano interessare chi non ha conosciuto i protagonisti, chi non li ha amati.I grandi avvenimenti del loro tempo, quando pure se ne diano, le sfiorano, senza ch'esse abbiano agio di contemplarli; li vedono come Fabrizio del Dongo vide Waterloo, e la narrazione che se na fa in famiglia non di rado è del tutto falsata.Delle cose sentite da mio padre, che veniva da una modestissima famiglia della Sicilia orientale, quel che più ricordo è il quadro di squallida vita, in un paese e in un tempo in cui la famiglia acquistava due centesimi d'insalata, ma il danaro scarseggiava talmente che tutti i prodotti stentavano quanto mai a trovare acquirenti, e non di rado a novembre si vuotavano lungo le vie le botti del vino dell'anno precedente per fare po› sto al vino nuovo. E altresì m'interessavano i racconti delle sue missioni, intorno al 1883, quando, ragioniere alla Prefettura di Siracusa, andava ad ispezionare bilanci di Comuni impervi, dormendo, unico luogo in cui potessero pernottare gl'impiegati in missione, nelle caserme dei carabinieri; drizzavo le orecchie soprattutto a sentir dire di certi incontri con antichi briganti, di cui uno diventato frate, e dei bravi vecchi che questi erano divenuti, moraleggianti, e pure fruenti del prestigio dei loro antichi delitti. Qualche altra voce della Sicilia mi veniva attraverso le visite di amici e conterranei di mio padre. Era ancora la Sicilia paesana, con le donne che non escono di casa se non per andare a messa, sempre vestite di nero (la spesa quotidiana è compito degli uomini); le famiglie dove tutti i giorni trascorrono eguali, mai mutano i cibi, non manca l'indispensabile, ma scarseggia sempre il danaro. Particolarmente esaltavano la mia fantasia i racconti di un intimo amico di mio padre, direttore delle carceri di non so quale città della Sicilia: il mafioso che, recluso, domina, sicché il signore cui è stato rubato l'orologio va dal direttore delle carceri, e questi prega il mafioso di farlo restituire, e l'orologio subito ritorna.

Nessun racconto che rievocasse episodi del Risorgimento: se non una rissa tra i fumi del 1948, fra i tre fratelli Temolo, artigiani, ed i tre fratelli Arezzo di Donnafugata: da cui pare fosse derivata qualcosa come una parentela spirituale, per cui mio padre ogni volta che tornava alla natia Ragusa andava a salutare, festeggiato, un ottantenne superstiste di quella rissa; ed ancora assai più tardi vidi un mio vecchio zio artigiano, chiamato come paciere in non so che vertenza della nobile famiglia. Ed altresì: l'immagine di Garibaldi nell'ultimo suo viaggio in Sicilia, nel centenario dei Vespri: non vecchissimo, ma rattrappito dall'artrite immobilizzato, lo sguardo spento, portato in giro come un idolo: senza nulla più che rivelasse il mirabile suscitatore di energie, l'uomo dei miracoli ch'egli era stato. Spettacolo penoso, che sentii pure evocare da altri, che stringeva il cuore. Dall'età di nove anni ai venticinque vissi solo con mia madre: e sentirle narrare della sua infanzia, della sua vita purtroppo triste in ogni età, non mi stancava mai; né mai mi dolevo se le storie si ripetevano. Potrei anch'io riscrivere una cronaca come quella del Monti; ma io non ho la magia della sua penna, né mia madre aveva l`estro e la vena bizzarra del Carlin che Monti ha illustrato. La mia cronaca sarebbe insipida; e tuttavia penso che la bizzarria del caso fa si che oggi sarei forse il solo a tracciar le vicende del ghetto di Mondovì all'incirca tra il 1875 ed il 1886.

Mia madre era sempre vissuta, figlia unica, con la sua mamma, in casa del nonno materno, medio commerciante israelita, con a Ceva uno di quei fondachi ove si vendeva di tutto, stoffe, telerie, cappelli da prete e berretti da ufficiale degli alpini, spalline, drogone, bottoni, aghi. Vecchio negozioche doveva risalire al periodo napoleonico, mantenuto con tenacia tra il 1814 ed il 1848, quando i Savoia della Restaurazione (quelli del ramo primogenito con molta bonomia, Carlo Alberto con particolare severità) non consentivano alle famiglie ebree di vivere fuori dei ghetti, ma il commerciante poteva mantenere il suo negozio vivendo solo, dormendo nel retrobottega od alloggiando alla locanda.

Mia madre era nata a Ceva, in quella casa che credo rechi ancor oggi una piccola lapide "Questa fu la casa di Carlo Marenco" (uno dei tragedi a mezzo ottocento, emulo del Pellico, la cui vena continuò ancora in un figlio, Leopoldo), ed a Ceva aveva vissuto la prima infanzia, fino a che il nonno non si era ritirato dal negozio, ceduto al primogenito, per andare a vivere nella vecchia casa di Mondovì, una delle due case che costituivano il ghetto, la sede autorizzata della famiglia fino alla emancipazione. Non molti anni fa mi divertii a studiare su documenti dell'Archivio di Stato di Torino il regime degli ebrei nel regno di Carlo Alberto; e confrontando quelle care con i ricordi familiari di Ceva e Mondovì, mi resi conto di cosa significasse la tenace volontà di Carlo Alberto: ¬ gli ebrei solo e sempre nei ghetti, mai deroghe che consentano a famiglie ebree di vivere fuori-.

Il ghetto era la sicurezza dell'isolamento; non c'era bisogno di restrizioni, né di portoni, né di orarii, né di divieti di andare in pubblici locali; l'isolamento veniva spontaneo, era ricercato. Dove c'erano tre, quattro famiglie, tra cui s'intrecciavano innumerevoli parentele, esse vivevano tra loro, sorvegliandosi reciprocamente nell'adempimento dei doveri religiosi - non mangiare cibi sospetti d'impurità, non fare il minimo lavoro nei giorni festivi dopo che era spuntata la prima stella del venerdì, o prima che fosse spuntata quella del sabato: non c'erano ancora liberi pensatori, ed il mancare ad uno di questi precetti era considerato vergognoso anche da chi in cuor suo cominciava a rodere il freno: l'ardire dei primi modernisti non andava oltre l'uso del rasoio, considerato vietato dai vecchi -, formavano un sistema così compatto e completo, che nessun cristiano, anche desiderandolo, avrebbe potuto penetrarvi. Ancora a trenta, a quarantanni dalla emancipazione, le relazioni si limitavano ai saluti con i bottegai, con la vicina che aveva la finestra di fronte, per le più giovani generazioni ai balli di carnevale al circolo cittadino, di cui era socio qualche zio o cugino consigliere comunale o professore o medico od avvocato.

Ma per l'unica famiglia di ebrei che fosse in un piccolo paese, e che vi fosse nella situazione di proprietaria di un negozio, centro di affari, ma anche un po' della vita paesana, l'isolamento diventava difficile; fatalmente e il capo della famiglia, il proprietario di negozio finiva di essere attratto nella partita dinanzi alla bottiglia con i notabili del luogo, la moglie finiva con entrare in discussione sui prezzi del pollame o sulla confezione di un certo dolce o sulla lavorazione di un certo merletto con quella signora che veniva spesso a fare acquisti nel negozio, la ragazzina finiva col giocare col altre ragazzine. Carlo Alberto aveva probabilmente quel suo piano di ristabilire e mantenere l'assetto anteriore alla rivoluzione francese, quel medesimo piano per cui non voleva che i borghesi avessero niente di più, nessuna carica ulteriore, oltre quanto avevano avuto nel 1798. Nei modesti e poveri ebrei dei suoi ghetti non intravedeva ancora gl`ideologi che su quei polloni sarebbero fioriti di li ad un paio di generazioni; se temeva una corruzione dei suoi sudditi, poteva solo essere la corruzione derivante dal non rispettare le prescrizioni del Corpus iuris canonici relative alla separazione dagl'infedeli, non certo altro tipo di perversione. Però quella tenace idea che gli ebrei non potessero vivere fuori dei ghetti non era senza un perché.

 Mia nonna quando parlava di Ceva ricordava amiche cristiane; a Ceva dovevano essere stati in relazione con tutti. A Mondovì isolamento quasi assoluto fuori che nella vasta cerchia del vicinato. Cronache di un ghetto tra il 1875 ed il 1886. Mi rendo ben ragione perché i sionisti considerino il periodo nero quello decorso tra l'emancipazione e la prima guerra mondiale, il periodo dell'assimilazione, in cui pochi si perdettero per passare alla cristianità; ma molti usi, tradizioni ebraiche andarono perdute, scadde la conoscenza della lingua sacre, e soprattutto quella della Torah, e fu veramente, profondamente assimilata la cultura moderna, su base romano-cristiana. Ma scadde soprattutto la contemplazione del Dio unico, ogni idea di popolo eletto non era raro sentire ebrei che dicevano che occorreva restare tali, perché se Dio li aveva assegnati a questo popolo umiliato occorreva accettare la sua volontà: non più dunque ringraziamento per una scelta di elezione, bensì accettazione di una umiliazione), ogni idea di una missione da svolgere; furono ambiti gli onori e le distinzioni date dagli infedeli.

Invero in quelle cronache apparirebbe non di rado l'immagine del ricco israelita che non riserva più la sua beneficenza ai correligionari, ma la spande sulle istituzioni pubbliche, contemplando il premio di una croce di cavaliere (in più alte sfere, potrà essere il titolo di barone), contentandosi intanto dell'incensamento del giornaletto locale; della signora torinese che cerca di entrare, versando alte quote, in un comitato di beneficenza, che avrà come premio di essere ricevuta da una principessa reale.Sento parlare di persone colte, bene educate; ma attraverso quei ricordi non vedo profilarsi figure simili a quelle di Mario Falco, Marco Fanno, Alessandro Levi, Benvenuto Terracini, Giogo Levi della Vida e la sorella Maria ( penso anche a più vecchi, Guido Castelnuovo, Vito Volteira e la carissima signora Virginia; penso a quella eletta e commovente coppia, Fialemone e Bauci, il pianista Giorgio e la pittrice Alis Levi) in cui alle doti di alta intelligenza e cultura si univa la signorilità più schietta, quella che ha sede nel profondo dell'essere, che costituisce come un sesto senso, che mai consentirebbe di sfiorare un lato intimo dell'interlocutore, di evocargli un ricordo spiacevole, di riaprire una sua ferita. L'idealista, il filantropo, il pensatore, quegli che sente tutti gli uomini fratelli, che partecipa al Risorgimento, viene di solito da regioni come il Lombardo Veneto o il Ducato Estense o la Toscana, dove la compressione dell'ebreo non e stata così intensa come in Piemonte, dove l'ebreo ha potuto studiare nelle scuole pubbliche.

Questa cronache di un ghetto piemontese mostrerebbero che nei ceti più alti, dove c'è un avvocato, un medico, un professore, un agiato commerciante, se la prassi religiosa non soffre, c'è un proiettarsi verso l'esterno, non solo il fare parte di un circolo cittadino e l'andarvi ogni giorno a leggere i giornali od a giocare a carte, ma il divenire il grande elettore di un deputato, che una volta l'anno s`invita anche a colazione; il farsi portare candidati al consiglio comunale, il seguire tutti i problemi del Comune. Si è ancora profondamente radicati al ghetto, la cerchia delle parentele e tutta lì, ma cominciano ad aversi relazioni estranee. Ed anche nei ceti più modesti penetra il soffio del di fuori: il mio bisnonno nato nel 1807 è ancora degli osservanti che non usano il rasoio, non fa parte del circolo cittadino, ma legge romanzi, Sue, Ponson du Terrail e De Koch. È sorta la passione per la campagna, si hanno delle piccole tenute, la "cascina", e si sono instaurati così dei rapporti con il mondo contadino (qualche volta quelle relazioni significheranno anche la nascita di un piccolo bastardo che finirà all`ospizio; ma talora verranno rapporti di cordialità, che saranno per entrambe le parti allargamenti di orizzonti). Credo attraverso la campagna, si cominciano ad amare gli animali, elemento estraneo ai vecchi ghetti: il cavallo, il cane ed il gatto che diventano i compagni della vita quotidiana.

Da quei ghetti sortiranno non molto più tardi dei giovani socialisti turatiani; uomini di giornali e di libri più che di organizzazioni operaie; professori, più d'uno. Allora, intorno al 1870-1880, sono tutti monarchici, con un spirito risorgimentale, cavourriani o brofferiani, ma il Re non si discute. In questa devozione alla monarchia anche la storia e falsata; sentirò raccontare che essendo corsa la voce che Carlo Alberto volesse concentrare gli ebrei in alcune città, una deputazione di cui faceva parte il mio bisnonno è stata ricevuta da lui a Torni ed è stata tranquillizzata dalla parola reale; e quando esaminerà quella filza dell'Archivio di Stato constaterò che mai il Re ha ricevuto deputazioni di ebrei, e che la storia del mio bisnonno e solo questa: ch'egli e i suoi fratelli hanno chiesto di poter vivere a Ceva dove posseggono il negozio, che tutte le autorià, cittadini, preti, hanno appoggiato l'istanza, assicurando che si tratta di ottime persone, benefiche, che mai hanno esercitato l'usura; e che il Re ha risposto di no.

 A parte i rapporti col mondo esterno, quelle cronache sono piuttosto scialbe. In massima, un sangue povero, su cui hanno operato i continui matrimoni tra cugini; corpi meschini, piccoli, esili, piedi piatti; qua e là si stacca qualche bell'esemplare, ho un vago ricordo di un mio prozio altissimo, con larghe spalle, la barba bionda, un generale tedesco di Guglielmo I avrebbe potuto essere (ed era un merciaio fallito). Abbondano i casi di alienazione mentale, cli epilessia, non rari i suicidi. Ben pochi sono fatti abili al servizio militare. Vecchi maniaci, uno che allarma i vicini che sentono in certe notti tramestio sui tetti, ed è lo strampalato che durante il plenilunio va a dire la orazioni sulle tegole (e un falso ricordo, o nei miei cinque anni ho visto questo Michelino, un vecchietto dalla barbetta candida e dagli occhi azzurri di pecora pazza?); un altro che si e ritirato in una soffitta, dove rilega incessantemente libri di preghiere, ma un giorno inopinatamente scende, scopre che la vecchia moglie ha peccato non so come contro il rito, e la strozzerebbe, se non gliela togliessero dalle mani. Contrasto tra i padri ed i figli, che debbono mentire ai padri per poter frequentare ginnasio e liceo, giurando che il giorno di sabato non scrivono, e non camminano per oltre un chilometro, che pare sia il massimo percorso che sia dato compiere senza venir meno al precetto dell'astinenza da ogni opera.

È l'attaccamento alla legge e alla tradizione che non si discute; è il senso della unità che occorre che occorre mantenere; ma non ci sono assilli religiosi. I dotti discutono sulla interpretazione dei precetti, sul rito (tutto maschile, le donne non vi partecipano, possono solo assistervi, seguendo in silenzio le preghiere su un libro, da una tribuna della sinagoga, chiusa da un reticolato, simile alle tribune di certe chiese di monache; ma quell'assistenza non è un obbligo); dissentono sull'ordine di recitazione di date preghiere, su questioni di pronuncia e cadenza nella intonazione dei canti sacri (su questo terreno si distinguono i riti, le cosiddette scuole); ma non si agitano problemi sulle origini e destini dell'uomo, sulle sue sorti ultraterrene, sul libero arbitrio e la grazia. Può darsi che in alte sfere se ne tratti; ma non penetrano nei ghetti paesani, la tradizione, questo è il grande cemento; la tradizione religiosa, non tradizioni particolari.Né nei ricordi di mia madre, né nei discorsi ascoltati da bambino dai fratelli di mia nonna, c'è qualcosa che risalga oltre la generazione precedente (eppure Arnaldo Somigliano mi assicura che la famiglia aveva avuto nel Settecento poeti e poetesse); sento solo dire che nella più vecchia casa di ghetto che ha una vasca nel sotterraneo (dev'essere la vasca delle abluzioni rituali, ma queste non le ho mai sentite menzionare; credo che ora le purificazioni seguissero nelle dimore) c`è nel gradino lambito dall'acqua un pietra smuovibile, che ha dietro di sé un vano; in questo furono nascoste e vennero salvate le argenterie "quando vennero i francesi". È certo il ricordo dei francesi di Bonaparte e di Massena e della battaglia di Mondovì del 1796 con relativi saccheggi; ma il ricordo di quella dura prova non è ulteriormente rievocato.

Espressione viva della tradizione, cementano le ricorrenze, le feste annuali, in autunno il capo d'anno, il giorno del digiuno, la festa delle capanne, a primavera la pasqua, con la pulizia della casa onde non resti ombradi pane fermentato, e gli azzimí, salati e dolci.Le feste, che riuniscono i dispersi, quelli che vivono nei minori centri dove non c'è comunità, Dogliani, Murazzano, Carrù.Rivedo mia madre accendere ceri e recare cuori alle immagini della Madonna di Pompei e di S. Antonio da Padova di cui è divenuta devota; ma so che ha ancora la nostalgia di quelle feste della sua giovinezza. La vita familiare e in massima assai sana in quei ghetti, ma se i matrimoni tra cugini continuano ad andar bene, gli altri, quelli combinati da sensali, che sono in relazione con tutti i ghetti d'Italia, non danno sempre buoni frutti: i casi di separazione non sono rari, talora si sente mormorare che certo bambino rassomiglia troppo ad un cugino della mamma. Anche dove la vita e sana, non c'è più la tradizionale sottomissione della donna, il vicinato ascolta le imprecazioni e gli alterchi. Il vecchio uso della donna ebrea che sposandosi si rade e porta la parrucca sta finendo, se pure abbia ancora conosciuto due o tre vegliarde che l'avevano mantenuto. Quel ghetto, come molti altri, è alla fine; il movimento verso le città dopo venti anni lo avrà svuotato. Per il resto dei ricordi monregalesi, niente che si stacchi dalle consuete cronache di vita paesana del tempo, con le sequele di pettegolezzi, d'invidie, di liti e di conciliazioni; vita dura interrotta di tanto in tanto da banchetti luculliani per festività o nozze; le camere freddissime, i ragazzi che si alzano alle cinque e spezzano il ghiaccio formatosi nei catini per potersi lavare, e poi, nell'unica camera dove la fantesca ha acceso il caminetto, mangiano la pappa calda di pane ed olio, e quindi al lume della lucernetta studiano le lezioni; le scuole dagli orari lunghissimi, quella magistrale diretta da un vecchio garibaldino che piangerà il giorno della morte di Garibaldi, e dove insegna anche uno strano prete, uno di quelli che ancora girano in polpe e cappello a cilindro, eloquentissimo ed amatissimo; ma che di tanto in tanto il Vescovo sospende a dívinis per dei suoi trascorsi non precisamente politici. I criteri educativi per cui alla giovanetta che studia da maestra s'impongono anche le lezioni di piano, la scuola di cucito e quella di ricamo, non volendosi a nulla rinunciare. Ed altresì le note comuni a quegli anni: le epidemie di crup, che portano via i bambini ~ quante immagini di testine di bimbi, il cui cammino si è subito arrestato »; qualche anno l'incubo del colera, che non assume le forme spaventose che avrà a Napoli nel 1984, ma che ha le sue vittime ed i suoi scampati. Mia madre ne sarà colpita all'improvviso, mentre fa i suoi esercizi di piano, e resterà sempre riconoscente al medico che arriva subito, la cura con gli alcoolici ed avvolgendola tra lenzuola caldissime e, soprattutto, non denuncia il caso.

 

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