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Aristide Gabelli (Belluno, 22 marzo 1830 – Padova, 6 ottobre 1891) è stato un pedagogista e politico italiano.
Aristide Gabelli è stato tra i principali promotori del positivismo filosofico in Italia. Non ne condivise però alcune tendenze, come il materialismo e l'atteggiamento anticlericale. Più che un teorico del positivismo, come è stato Roberto Ardigò, fu colui che volle tradurne in pratica i princìpi nell'organizzazione scolastica. La sua concezione filosofica è considerata molto affine al pragmatismo dell'americano John Dewey.
Il fratello Federico Gabelli (1832–1889) era ingegnere ferroviario e deputato al Parlamento per il Friuli.
Ad Aristide Gabelli è dedicata la scuola elementare della città di Belluno: inaugurata il 28 ottobre 1934, fu voluta da Pierina Boranga che vi applicò il metodo pedagogico ideato a Milano da Giuseppina Pizzigoni. Sempre a lui sono dedicate anche la scuola elementare del quartiere Borgo Ticino di Pavia, un istituto comprensivo a Napoli, un Istituto Comprensivo Statale di Misterbianco in provincia di Catania, una scuola elementare a Palermo e una al Lido di Venezia.
Dopo aver seguito gli studi di legge a Venezia, nel 1854 frequentò un corso di perfezionamento a Vienna. Per non prestare il servizio militare nell'esercito austriaco (il Veneto faceva parte all'epoca dell'Impero austro-ungarico) si trasferì prima a Firenze, poi a Torino e infine a Milano, dove nel 1861 fu chiamato a dirigere un istituto tecnico e nel 1865 fu nominato direttore del convitto nazionale Longone di Milano.
Nel 1869 si trasferì a Roma dove fece parte del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione fino al 1874. Fu poi nominato provveditore agli studi di Roma, carica che tenne fino al 1881.
Nel 1880 scrisse Il metodo di insegnamento nelle scuole elementari d'Italia, in cui sostiene la necessità di adeguare i programmi scolastici a quelli delle altre nazioni europee:
«Il maestro deve tener presente che la scuola ha da servire a tre fini, a dar vigore al corpo, penetrazione all'intelligenza e rettitudine all'animo» |
Nel 1886 fu eletto al Parlamento del Regno d'Italia come deputato per Venezia (rieletto nel 1890). Nel 1888, durante il primo governo di Francesco Crispi fu incaricato di elaborare i programmi della scuola elementare dell'obbligo recentemente istituita. In questi programmi il maestro elementare viene invitato tra l'altro a "stare alla larga dall'istruzione parolaia e dogmatica, a calare l'insegnamento nella realtà".
La scuola secondo Aristide Gabelli deve non solo liberare l'individuo dall'ignoranza, ma anche metterlo in grado di pensare autonomamente esercitando il senso critico, in modo da poter partecipare utilmente alla vita sociale e civile e contribuire allo sviluppo economico del paese.
A. Gabelli, Il metodo d'insegnamento nelle scuole elementari d'Italia, [1880], La Nuova Italia, Firenze 1992.
III, pp. 71-72
«Tutto il segreto della buona riuscita della scuola sta nel saper trar profitto dell'istruzione che qualunque bambino ha ricevuto prima di entrarvi, nel seguitare cioè dentro di essa, in luogo di rompere, il filo delle idee che egli raccolse fuori. Quanto minore sarà il distacco tra la scuola e la vita che il bambino condusse fino al giorno in cui vi mise piede, quanto più l'insegnamento del maestro somiglierà alla istruzione ch'egli ricevette dalla natura, tanto maggiore sarà il suo piacere e perciò il suo profitto. Noi non abbiamo infatti, né potremmo avere curiosità dell'ignoto. Bisogna che una cosa ci sia nota a metà, perché ci venga il desiderio di conoscerla intera. In altre parole, impariamo volentieri soltanto quando ci si lascia credere che presso a poco già sapevamo quello che ci si insegna. Allora la compiacenza che scatta subito dall'amor proprio ravviva e tien desta la nostra attenzione, e con questo solo si è già fatto mezzo il cammino.
Ma qual è la vita che il bambino fece prima di entrare alla scuola? Quella dei sensi, che furono, si può dire, i soli suoi maestri. Continuiamo dunque questa prima istruzione della natura, in luogo d'interromperla in guisa ch'egli ne resti confuso e umiliato, e insieme cerchiamo di secondare quant'è più possibile i suoi utili istinti e le sue inclinazioni.
I fanciulli giocano dunque dei giochi che rammentino loro le cose vedute in casa, per le strade, in campagna, che attraggano la loro curiosità, e insieme procaccino loro il piacere di far da sé qualche cosa».
IV, pp. 79-81
«[…] Siccome poi delle cose sensibili l'idea più chiara si acquista per mezzo dei sensi, così non si descrive soltanto, e meno ancora si definisce, ciò che può far vedere e toccare, ma si presenta agli scolari o in natura, se è fattibile, o, se no, in plastica o in disegno, l'oggetto stesso su cui è caduto il discorso. Si parla, suppongasi, dell'elefante. Il maestro, e il maestro campagnuolo principalmente, volendo spiegare che cosa significhi questo nome, ha un bel sudare co' suoi contadinelli, predicando loro che è un animale ben grande, di colore cenerognolo, grosso di testa, col dorso in arco, con quattro gambe massicce a guisa di colonne e un lungo naso elastico penzoloni fra due enormi denti bianchi sporgenti in fuori. Che conchiudono tutte queste parole? Che è questo strano naso? Che questi denti, ai quali nessuno vide mai cosa simile? Malgrado questa e qualunque altra molto miglior descrizione, entrerà, come a dire, una nuvola nella testa di quei poveri fanciulli, tanto che ognuno di essi si fingerà quest'animale alla sua maniera e in ultimo, meno il nome, ne saprà all'incirca come prima. Fate invece che il maestro, dopo di avere abitualmente stuzzicato la loro curiosità, tragga fuori una tavola in cui l'elefante sia dipinto: eccovi tutti gli occhi sospesi in quella con una così bramosa curiosità, che l'immagine va ad imprimersi profondissima nella memoria e non si cancella per tutta la vita. Quell'immagine offerta appena è come una rivelazione, dissipa tutti gli errori, tutte le idee preconcette, tutti i pregiudizi, è la viridica parlante, e non lascerà luogo mai più a fole, a vane meraviglie, a esagerazioni.
Ma il maestro ha poi finito col mettere fuori all'occasione un oggetto qualunque in plastica o dipinto sopra un cartone e farlo vedere a' suoi alunni? Quest'ufficio sarebbe in verità troppo semplice, e la pedagogia non se ne accontenta. Che bell'occasione, quando la curiosità è desta, quando c'è un'immagine precisa e netta davanti agli occhi che raccoglie tutta l'attenzione, quando tutti quei visini stanno là attenti e silenziosi rivolti al loro maestro, che bell'occasione per lui, diciamo, di mettere delle idee nuove in quelle menti aperte e vogliose, di fecondare quella prima impressione, di tirar dentro storia, geografia, costumi di popoli, tutto, e rimandare a casa i suoi bimbi con ben altro bottino che quelle regole della grammatica imparate a memoria senza capirle a forza di rimbrotti e di castighi. Ma l'elefante! É quell'animale che Pirro condusse in Italia, quando ci venne per muover guerra ai Romani e di cui i Romani in principio avevano tanta paura. Del resto, l'elefante c'è in molti paesi, c'è in Asia e c'è in Africa; in Asia mansueto, in Africa invece selvaggio; selvaggio, ma non per questo inutile all'uomo. Anche dove non lo si adopera per gli usi della vita quasi come da noi l'asino e il bue, gli si dà la caccia per averne l'avorio, di cui si fa un commercio misterioso, per via di molte tribù intermediarie, cogl'indigeni del centro dell'Africa ancora poco conosciuti. E qui all'uopo nuove tavole cogl'Indiani che caricano gli elefanti, e le case, le piante. Gli aspetti dei paesi di cui si parla. Al bisogno, il maestro si leva e disegna sulla lavagna il bacino di un fiume, una capanna, un canotto. Tutti gli occhi son lì sospesi a quella tavola nera; che silenzio da sentir volare una mosca, che attenzione, che rispetto per quel bravo maestro, che scuola!».
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