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Tar Lazio, ricercatori universitari: non alla commistione tra sistema previdenziale pubblico e privato

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 Con sentenza n. 1946 del 14 febbraio 2019, il Tar Lazio ha affermato che il ricercatore universitario, e più in generale, il dipendente pubblico, se iscritto ad una Cassa di previdenza professionale oltre alla Gestione relativa ai trattamenti pensionistici per i dipendenti dello Stato,qualora matura il diritto alla pensione presso il primo ente, ha diritto alla prosecuzione del rapporto con la pubblica amministrazione sino alla maturazione dei requisiti di pensione di vecchiaia presso la Gestione su menzionata.

Ma ripercorriamo i punti salienti della questione sottoposta all'esame dei Giudici amministrativi. 

I fatti di causa.

Il ricorrente è un ricercatore universitario, iscritto alla Cassa di previdenza professionale relativa alla sua categoria. È accaduto che, mentre era ancora alle dipendenze dell'università, il ricorrente ha maturato il diritto alla pensione presso la Cassa su menzionata e, sebbene non fosse maturato il suo diritto alla pensione presso la Gestione relativa ai trattamenti pensionistici per i dipendenti pubblici, l'università ha cessato il rapporto con il ricercatore. Contro il provvedimento amministrativo di collocazione a riposo, il ricorrente si è opposto, lamentandone l'illegittimità. Il caso è giunto dinanzi al Tar Lazio.

La decisione dei Giudici amministrativi. 

Innanzitutto, il Tar adito prende in considerazione la normativa applicabile alla fattispecie in esame. In particolare si tratta dell'art. 24 D.L. n. 210/2011 (cosiddetta "riforma Fornero"), secondo cui «il dipendente delle pubbliche amministrazioni può accedere al trattamento pensionistico alle seguenti condizioni (tra loro alternative): 1) 66 anni e 7 mesi con 20 anni di contributi, sempre che l'importo dell'assegno superi di 1,5 quello dell'assegno sociale; 2) 70 anni e 7 mesi di età con almeno 5 anni di contribuzione effettiva (volontaria, obbligatoria, da riscatto). 

 Il requisito anagrafico minimo per la pensione è di 66 anni e 7 mesi». L'università, nel caso in questione, invece, ha interrotto il rapporto con il ricorrente, al compimento dei 65 anni di quest'ultimo, nonostante non fossero maturati i 20 anni di anzianità contributiva minima prevista per il pubblico impiego. E ciò in considerazione del fatto che, a parere dell'ateneo, avendo il ricorrente maturato i requisiti del trattamento pensionistico presso la Cassa di previdenza professionale cui era iscritto, ai sensi dell'art. 2, co. 5, D.L. n. 101/2013, intervenuto in via di interpretazione autentica sull'art. 24, co. 4, del D.L 201/2011 su citato, «l'amministrazione deve far cessare il rapporto di lavoro se il lavoratore ha conseguito, a qualsiasi titolo, i requisiti per il diritto a pensione». In realtà, a ben leggere l'art. 2 su enunciato, esso«chiarisce che i previgenti limiti per il collocamento a riposo, previsti per i pubblici dipendenti dai settori di appartenenza, non sono di per sé modificati dalla legge di riforma Fornero; e che, ove al raggiungimento degli stessi il lavoratore non abbia maturato i nuovi requisiti per il pensionamento, previsti dalla medesima riforma, il rapporto di lavoro debba proseguire, sino a che l'interessato non maturi i requisiti per il diritto a pensione».Orbene, nel caso di specie, invece, l'università ha cessato il rapporto con il ricercatore, partendo dal raggiungimento del limite di età previsto dal settore di appartenenza (65 anni), senza tener conto che in ambito pubblicistico il ricorrente non aveva maturato alcun diritto alla pensione. In buona sostanza, secondo l'ateneo, tale evento (ossia raggiungimento del limite di età per la categoria professionale di appartenenza) sarebbe requisito idoneo a impedire la prosecuzione del rapporto di lavoro pubblico

Di diverso avviso sono i Giudici amministrativi.

Questi ultimi affermano che l'art. 24, co. 4, D.L. n. 201/2011 (convertito in legge 22 dicembre 2011, n. 214) alla luce dell'interpretazione di cui all'art. 2, co. 5, del D.L. n. 101/2013 (conv. l. 30.10.2013, n. 101) stabilisce che «per i lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni il limite ordinamentale, previsto dai singoli settori di appartenenza per il collocamento a riposo d'ufficio, può essere superato, per permettere il trattenimento in servizio o per consentire all'interessato di conseguire la prima decorrenza utile della pensione ove essa non sia immediata, e che solo dopo aver raggiunto tale condizione, l'amministrazione deve far cessare il rapporto di lavoro o di impiego ove il lavoratore abbia conseguito i requisiti per il diritto a pensione». Ne consegue che il dipendente pubblico che ha raggiunto l'eta pensionabile per l'ordinamento professionale di appartenenza, potrà proseguire il rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione fino a quando non consegua «la prima decorrenza utile della pensione». Ciò sta a significare che «nell'ambito del pubblico impiego, i requisiti necessari per acquisire il diritto a pensione e per la cessazione (obbligatoria) del rapporto di impiego pubblico devono essere maturati nell'ambito del medesimo rapporto pubblico». Se così non fosse, la diversificazione tra sistema previdenziale privato e pubblico non avrebbe senso e la loro commistione sarebbe illogica. Il fatto, poi, che nell'art. 24 su menzionato si affermi che «il rapporto di lavoro deve cessare se il lavoratore ha conseguito, a qualsiasi titolo, i requisiti per il diritto a pensione», secondo il Tar, va inteso nel senso che il rapporto di lavoro deve essere interrotto qualora maturi qualsiasi titolo che dà diritto alla pensione nell'ambito del pubblico impiego. Orbene, nel caso di specie, l'università non ha tenuto conto di questo e ha disposto il collocamento a riposo del ricorrente, non per il raggiungimento dei requisiti della pensione di vecchiaia nell'ambito del pubblico impiego, ma al mero raggiungimento del limite di età: requisito, questo, che, nella questione in esame, dà diritto al ricorrente alla pensione presso altra gestione previdenziale. Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, pertanto, i Giudici amministrativi, hanno ritenuto illegittimo il provvedimento impugnato e di conseguenza hanno accolto il ricorso. 

 

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