La Asl si era opposta, proponendo ricorso financo in Cassazione, contro la pronuncia del giudice di merito che l´aveva condannata a liquidare, a titolo di risarcimento, la somma di €25000 alla donna che, alcuni anni prima, in una vicenda balzata agli onori, e più esattamente sarebbe dire agli orrori, della cronaca, era stata vittima di uno stupro consumato, quando ella era in stato di quasi totale incoscienza, all´interno della struttura nella quale avrebbe dovuto essere protetta, ed anzi coccolata, la sala operatoria di un ospedale reatino.
L´amministrazione sanitaria aveva in particolare sostenuto davanti al giudice di legittimità che il comportamento tenuto dal medico «nulla ha a che vedere con le funzioni di anestesista affidategli dalla struttura ospedaliera».
Ma ieri, 21 settembre, la terza sezione civile di piazza Cavour, ha respinto il ricorso: «È vero che quanto è accaduto dimostra la totale distorsione della finalità istituzionale in vista dell´esclusivo tornaconto personale ed egoistico, perché il comportamento tenuto dal medico, oggettivamente inqualificabile ed incredibile, è quanto di più lontano si possa immaginare rispetto anche a un´etica minima della professione sanitaria, si legge nella sentenza".
"Ciò non toglie, però, che la funzione svolta all´interno dell´ospedale reatino è stata un presupposto necessario dell´accaduto», per cui «la responsabilità» della Asl, in base a quanto previsto dall´articolo 2049 del codice civile (inerente la «responsabilità dei padroni e dei committenti»), «deve essere confermata».
La sentenza della Suprema Corte, che forniremo, nel suo testo integrale, non appena disponibile, ribadisce pertanto, con estrema sinteticità e chiarezza, principi che avevano formato oggetto di precedenti giurisprudenziali tanto della Corte che di giudici di merito, ma che, da parte di un altro filone giurisprudenziale, non sono considerati pacifici.