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Cassazione, senza intento persecutorio non può esistere mobbing

Moscuzza

 

Il datore di lavoro può essere accusato di mobbing qualora, con intento persecutorio, ponga in essere nei confronti del lavoratore, comportamenti persecutori, determinanti lesioni alla salute e alla personalità del lavoratore.

La sezione Lavoro della Cassazione, con sentenza n. 16335/17, depositata il 3 Luglio, così ha disposto.
 
Il giudice del lavoro di Lucca respingeva la domanda di un lavoratore volta ad ottenere la condanna della società datrice di lavoro, al risarcimento del danno non patrimoniale subito dal mobbing attuato a suo danno dal datore di lavoro. Così come prospettata da parte attrice, la prova dei comportamenti posti in essere con preordinazione vessatoria, risultava contraddittoria.
 
Dato che uguale esito aveva la questione presso la Corte d´Appello di Lucca, la sentenza veniva impugnata presso la Cassazione. Lamentava parte ricorrente, la falsa applicazione e violazione dell´art 2087 del Codice Civile, ( norma che prevede che l´integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro sia tutelata proprio da tutte quelle misure che l´imprenditore stesso è tenuto ad adottare ), nonché l´errore del giudice nel ritenere necessario, al fine della sussistenza del mobbing, un quid pluris, rispetto alla volontarietà della condotta.
 
Con riferimento al primo motivo di ricorso, rilevato che nel verbale di conciliazione pattuito dalle parti dopo l´intimazione del licenziamento, il lavoratore si era sì riservato di agire giudizialmente relativamente agli atteggiamenti di mobbing, ma aveva rinunciato ai diritti di natura risarcitoria ex art 2087 c.c., questo è stato ritenuto inammissibile perché incompatibile con quanto pattuito.
 
Con richiamo, poi, a corposa giurisprudenza, i supremi giudici, ribadivano che per mobbing si intende "la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell´ ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l´emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità". Perché si configuri tale condotta lesiva, elementi imprescindibili sono: " a)la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l´evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all´ integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell´elemento soggettivo, cioè dell´intento persecutorio ".
Avendo escluso che i testè elencati elementi, fossero stati provati dal ricorrente, la sentenza impugnata presso la Suprema Corte, si sottraeva ad ogni censura di legittimità, e il relativo ricorso veniva rigettato.
 
Paola Moscuzza, autrice di questo articolo, si è laureata in Giurisprudenza presso l´Università degli Studi di Messina, nell´anno 2015.
 
 
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