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Elda Turco: "Sea Watch ha violato legge italiana e convenzioni". Ma internazionalisti: "Condotta legittima"

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Elda Turco Bulgherini è una delle più accreditate esperte di Diritto Internazionale e professore ordinario di Diritto della Navigazione nell'università di Tor Vergata di Roma. È recentemente intervenuta con una intervista a Radio 24, sulla vicenda della nave Sea Watch. Secondo la docente, diversamente da quanto ritenuto da altri  giuristi, la nave, entrando nelle nostre acque territoriali nonostante il divieto delle autorità italiane, ha violato sia le convenzioni internazionali sia le leggi statali. 

Riportiamo sia il file audio, sia la trascrizione integrale del suo intervento, ritenendo di fare cosa utile nella prospettiva di un dibattito laicamente condotto, quanto più completo e che riporti le molte opinioni in una materia certamente complessa.

(dal min. 5.30 circa al min. 12.50, si può ascoltare l'audio originale sul sito di Radio 24, cliccando qui):

"Intanto c'è un Codice della Navigazione che come norma di carattere generale prevede che la polizia sul mare viene esercitata anche nei confronti delle navi straniere e quindi nelle acque territoriali taliane. ovviamente con totale giurisdizione in questo caso dell'Italia. Ora l'interdizione ad entrare era legata all'osservanza di una Convenzione che è quella delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, che quando parla di "mare territoriale" dice che le navi straniere possono entrare nelle acque territoriali di uno stato costiero qualora il passaggio sia "inoffensivo"; in questo caso, lo Stato italiano ritiene che il passaggio non sia inoffensivo, ma sia offensivo, in quanto una delle ipotesi previste dall'articolo 19 della Convenzione delle Nazioni Unite prevede proprio le ipotesi di immigrazione [illegale], quindi sia in base alla convenzione di Montego Bay sia in base al Codice della Navigazione, sia soprattutto in base al recentissimo decreto Salvini, l'interdizione c'è stata nei confronti delle navi straniere che entrano nelle acque territoriali, nel momento in cui è stato interdetto l'ingresso in relazione al fatto che ci sia una violazione di queste di queste norme. Adesso io non ho sott'occhio il decreto, comunque mi pare di ricordare che in questo caso sia nei confronti del comandante sia dell'armatore che del proprietario della nave siano applicate delle sanzioni penali quando il fatto costituisce reato quindi bisogna verificare se vi sia una fattispecie criminosa di immigrazione clandestina come prevede il Testo Unico sull'immigrazione e poi c'è anche la previsione di una sanzione amministrativa del pagamento di una somma che mi pare vada da 10.000 a 50000 euro. Peraltro mi sembra di ricordare che il decreto preveda che in caso di reiterazione commessa con l'utilizzo della medesima nave si applica anche la ulteriore sanzione, considerata accessoria, in base alla quale la nave viene confiscata.

Tra l'altro la cosa è molto grave dal punto di vista del diritto internazionale della navigazione, perché la nave si trovava in acque SAR, cioè Search and Rescue, di un altro paese che è quello libico, e il porto più sicuro più vicino, anche volendo evitare quello libico, era quello tunisino, dopodiché, una volta entrata nelle acque Sar maltesi, avrebbe potuto andare a Malta ma non ha voluto e si è diretta verso Lampedusa.

La nave credo che sia di bandiera olandese e la ong è tedesca e quindi l'unica sovranità che prevale è quella della bandiera. Quindi poiché erano in acque internazionali sono sottoposti alla legge dello stato di cui battono bandiera.

L'ingresso nelle acque territoriali di uno stato costiero è possibile solo qualora la navigazione venga considerata una navigazione inoffensiva e la Convenzione è molto chiara e cioè sono tutti casi tassativi quelli ove la navigazione viene considerata offensiva e uno di questi casi — indicati alla lettera a alla lettera l- è proprio quello (lettera c) che prevede il trasporto di persone relativamente ad attività legate alla immigrazione illegale e quindi in questo caso lo stato costiero ha tutto il diritto di ritenere nei confronti di una nave straniera che quel passaggio nelle proprie acque territoriali venga considerato offensivo e quindi può imporre alla nave di abbandonare le acque territoriali dello Stato.

Se la nave non lo fa in quel caso naturalmente ci sono responsabilità di carattere penale -che sarà nei confronti delle persone perché la responsabilità penale ha carattere personale- e poi ci sono anche sanzioni di carattere amministrativo".

 Fin qui l'intervento della docente universitaria. Ma che la dottrina sia profondamente spaccata sul punto e si registrino opinioni anche estremamente diverse, è dimostrato da un intervento ulteriore, questa volta firmato da ben 20 docenti di diritto internazionale, i quali, rispondendo all'avvocato Paolo Busco, consulente del Ministero dell'Interno ed intervenuto in proposito, si è pure a titolo, come da lui premesso, strettamente personale, hanno invece affermato la piena conformità del comportamento della comandante della Sea Watch all'ordinamento, tanto alle norme statali che a quelle internazionali. Ecco quanto rilevato dai giuristi: 

"In un'intervista pubblicata il primo luglio dal Corriere, l'avv. Paolo Busco, consulente del Ministero dell'Interno, sostiene la liceità internazionale della decisione del Governo italiano di negare lo sbarco della Sea Watch:1. perché la sovranità degli stati sull'accesso ai porti è stata affermata dalla Corte internazionale di giustizia nel caso Stati Uniti-Nicaragua nel 1986;
2. perché gli obblighi di soccorso, disposti dalle convenzioni SOLAS del 1974 e SAR del 1979, a carico degli Stati parti non implicherebbero il dovere di far procedere allo sbarco in situazioni del genere, ma solo quello di "prestare assistenza";
3. perché queste stesse convenzioni, stabilendo il principio del porto sicuro più vicino, non si riferiscono al fenomeno dell'immigrazione via mare;
4. perché, semmai, la responsabilità di cooperare al soccorso è di tutti gli Stati della "comunità internazionale", e, finché la Sea Watch si trovava in acque internazionali, la nave era sottoposta alla esclusiva giurisdizione olandese.
A nostro avviso:
1. non vi è dubbio che nelle acque interne e nei porti ciascuno Stato eserciti la propria sovranità, beninteso nel rispetto degli obblighi internazionali. Per quanto poi il diritto internazionale non imponga un obbligo di accoglienza, esso di certo impone un obbligo di assistere le persone in difficoltà, in mare. Ebbene: come può uno Stato "prestare assistenza" a una nave carica di naufraghi che si presenti di fronte al proprio porto, se non consentendo uno sbarco, sia pure temporaneo? Ciò, a tacer del fatto che l'art. 3.1.9. della Convenzione SAR, emendata nel 2004 – non "negli anni settanta"! – obbliga gli Stati a cooperare per consentire lo sbarco delle persone in pericolo in un porto sicuro, sollevando il comandante della nave dal proprio obbligo di assistenza;
2. è poi difficile affermare che le convenzioni SOLAS del 1974 e SAR del 1979 non riguardino i migranti, se solo si considera che entrambe stabiliscono l'obbligo di prestare assistenza a persone in stato di pericolo, senza riguardo alla nazionalità, allo status e alle circostanze nelle quali esse si trovino. Insomma: tutti coloro che sono in pericolo e sono soccorsi in mare vanno qualificati in primo luogo come naufraghi, ed hanno diritto di essere sbarcati in un luogo sicuro, a prescindere dal fatto che abbiano, o meno, l'intenzione di migrare, com'è attestato, inequivocabilmente, anche dalla risoluzione A.920(22) dell'Assemblea dell'IMO;
3. la circostanza che, nel nostro caso, alcuni Stati, inclusi Malta, Olanda ed altri, non abbiano, disdicevolmente, adempiuto al proprio obbligo di cooperazione, non esime poi da responsabilità l'Italia, anche considerando che il porto di Lampedusa era il porto sicuro più vicino, e che nessuna "impossibilità di accogliere" sussisteva in questo caso. In altri termini: è proprio la natura collettiva, "erga omnes" e umanitaria degli obblighi di soccorso — peraltro evocata nell'intervista – ad escludere che l'inadempimento da parte di uno Stato, possa giustificare l'inadempimento da parte di un altro (ai sensi dell'art. 60, par. 4 della Convenzione di Vienna del '69);
4. si può infine ritenere, con tanta certezza, che la giurisdizione sulla Sea Watch in acque internazionali fosse solo olandese? In realtà la decisione (cautelare) della Corte europea dei diritti umani del 25 giugno nulla dice al riguardo, nè mancano precedenti in senso contrario. Nel caso "Women on waves", la stessa Corte ha riconosciuto la giurisdizione portoghese, e la violazione dell'art. 10 da parte del Portogallo, in relazione a fatti riguardanti una nave, in acque internazionali, cui era stato bloccato proprio l'accesso al mare territoriale. Nel notissimo caso "Hirs", la giurisdizione dell'Italia è stata riconosciuta in relazione a un'imbarcazione che si trovava in acque internazionali. Come si giustifica allora la giurisdizione esclusiva dell'Olanda, tenuto conto, fra l'altro, che addirittura un tribunale nazionale (il TAR Lazio) si è pronunciato sulla questione, e che la Guardia di finanza aveva notificato alla Sea Watch il divieto di accesso alle acque territoriali italiana, abbordandola con una "nave di Stato"? O forse si è trattato di "nave di Stato" solo in acque territoriali italiane, e non in acque internazionali, per uno … strano fenomeno di transustanziazione?!"

Enzo Cannizzaro
Pasquale De Sena
Riccardo Pisillo Mazzeschi
Nerina Boschiero
Andrea Cannone
Gabriella Carella
Marina Castellaneta
Giuseppe Cataldi
Carlo Focarelli
Pietro Gargiulo
Edoardo Greppi
Paola Ivaldi
Paolo Palchetti
Marco Pedrazzi
Laura Pineschi
Fausto Pocar
Lorenzo Schiano di Pepe
Tullio Scovazzi
Antonello Tancredi
Ugo Villani
(Professori di Diritto internazionale)

Riportiamo anche l'intervista a cui fanno riferimento i 20 docenti di diritto internazionale, pubblicata il 1 luglio 2019 sul Corriere della Sera a firma Danilo Taino:

"Quando un contenzioso arriva allo scontro, è una buona idea rivolgersi agli avvocati. Paolo Busco, esperto di diritto del mare e di diritti umani, è stato ed è consulente dei governi di Roma sul caso dei due marò e da quasi tre anni è consulente esterno del ministero degli Interni. In questa intervista — a titolo personale — dice di credere fermamente che nella vicenda Sea Watch la condotta dell'Italia sia stata lecita. «Il soccorso in mare è un obbligo morale, prima ancora che giuridico — dice —. Ma qui mi sembra che nessuno impedisca alle Ong di soccorrere chi rischia la vita in mare: il problema è molto più limitato e concerne il luogo in cui deve essere sbarcato chi viene legittimamente salvato».

Avvocato, si possono chiudere a priori i porti?

«Nel diritto del mare non esiste l'obbligo di aprire i porti. Nella sentenza "Nicaragua contro Usa", la Corte internazionale di Giustizia ha stabilito che, sulla base della propria sovranità, uno Stato ha il diritto di regolamentare l'accesso ai suoi porti».

Senza eccezione?
«L'eccezione più rilevante è il caso di "distress" di una nave, cioè quando ci sia ragionevole certezza di un "grave e imminente" pericolo per l'imbarcazione: sostanzialmente il pericolo di affondamento. Ma anche in questo caso c'è l'obbligo di prestare assistenza, non di aprire il porto».

Le navi delle Ong, però, parlano di «principio del porto sicuro».
«Ci sono due convenzioni internazionali, firmate dall'Italia, che prevedono che un salvataggio finisca con lo sbarco in un porto sicuro: la Search and Rescue (Ricerca e Salvataggio) e la Safety of Life at Sea(Sicurezza della vita in mare). Ma queste non dicono quale debba essere: sono state pensate negli Anni Settanta per naufragi in mezzo al mare e non ci si immaginava che ci sarebbero stati contenziosi su dove fare sbarcare i naufraghi. Ora si vogliono invece usare le convenzioni per uno scopo diverso, per regolare il fenomeno migratorio. Queste stesse convenzioni, inoltre, prevedono che quando uno Stato non sia in condizione di accogliere, gli altri Stati cooperino per identificare una soluzione. Cosa che, per esempio, l'Olanda si rifiuta di fare».

L'Italia, dunque, può decidere di respingere le navi delle Ong?
«Quando una nave è in acque internazionali vale la giurisdizione dello Stato di cui batte bandiera, nel caso Sea Watch l'Olanda. Quando entra nelle acque territoriali italiane è nella giurisdizione italiana, e quindi è il nostro Paese che se ne deve prendere carico. Per questo la nave della Ong è stata bloccata fuori dalle acque territoriali italiane. La decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo di una settimana fa ha respinto la richiesta di Sea Watch di attraccare in un porto italiano. Ma non basta, la Corte ha anche spiegato che si trattava di stabilire se la nave fosse davvero sottoposta alla giurisdizione italiana, perché c'erano obblighi dello Stato bandiera».

Dunque, per lei la condotta italiana è lecita.
«Sì, ne sono fermamente convinto. Ma la questione è piuttosto se sia lecita la condotta del resto della comunità internazionale. Le uniche obbligazioni che la Convenzione sul diritto del mare e le Convenzioni sul salvataggio in mare pongono in termini inequivoci sono le obbligazioni di cooperazione per la gestione condivisa dei salvataggi fra tutti gli Stati. È detto a chiare lettere: gli Stati devono cooperare, tutti. E su questo aspetto, mi pare che la comunità internazionale sia ampiamente inadempiente. È questo il vero dramma, che impedisce una vera e duratura soluzione al problema. Tutto a discapito dei migranti: perché ci si sofferma sulla presunta pagliuzza italiana, ma non sulla trave collettiva»."

 

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