Commette reato l´ex partner che produca in giudizio, dopo averla sottratta con l´inganno all´ex, la corrispondenza tra questi e la banca.
Una sentenza decisamente rilevante, quella pronunciata dalla seconda sezione penale della Corte di Cassazione e depositata il 12 gennaio 2018 (N. 752/2018) che enuncia un principio di assoluta chiarezza: integra il reato di cui all´art. 616 del codice penale, II co, la condotta di chi sottragga all´ex una corrispondenza tra questi e un terzo - nella fattispecie un istituto bancario - e la produca in un giudizio instaurato tra le due parti.
Tale condotta integra il reato descritto anche indipendentemente dal fatto che dall´esame della corrispondenza possa, potenzialmente, trarsi la consapevolezza che una parte delle risorse accumulate dall´ex possano essere state tratte dal patrimonio o dal lavoro della parte che le produce in giudizio, in quanto la ratio della norma è punire chi divulghi la corrispondenza altrui.
La Corte di Cassazione ha quindi accolto il ricorso, riformando la sentenza impugnata della corte d´appello, che rigettando il gravame, aveva confermato quella, originaria, emessa dal Tribunale di Macerata, di identico tenore.
Con sentenza in data 10.12.2015 la Corte di appello di Ancona
confermava la sentenza del Tribunale di Macerata datata 24.2.2014 che, nei
confronti dell´imputata, aveva dichiarato il non luogo a
procedere per intervenuta prescrizione rispetto alla accusa di essersi appropriata indebitamente di corrispondenza chiusa (una lettera contenente comunicazioni bancarie) e indirizzata, nel 2005, al solo coniuge separato (capo A), mentre aveva assolto la medesima, ai sensi dell´art. 530 comma 2 cod.proc.pen., perché il fatto non costituisce reato, in relazione alle ulteriori accuse (capo B) di sottrazione e rivelazione indebita
della stessa corrispondenza mediante produzione documentale, avvenuta nel
2009 ad opera della stessa nell´ambito di un giudizio civile.
La Corte territoriale respingeva in seguito l´appello proposto dalla parte civile, essenzialmente incentrato sul capo B, centrato sulla assenza di quella "giusta causa" che avrebbe potuto rendere lecita la rivelazione del contenuto della corrispondenza tra la banca e l´uomo, che la donna, una volta sottratta all´ex coniuge, aveva poi utilizzato in giudizio nell´ambito di una controversia civile contro di lui.
La Corte territoriale, confermando la decisione del primo grado, come detto, in quanto a proprio parere, l´imputata aveva agito in buona fede aprendo la corrispondenza
indirizzata all´ex coniuge nella convinzione - peraltro plausibile - che si trattasse di questioni bancarie relative ad investimenti (anche) suoi. Quanto alla condotta di divulgazione della
corrispondenza (art. 616 comma 2 cod.pen.), integrata tramite la produzione
in giudizio, il giudice di secondo grado escludeva la sussistenza di prova adeguata del dolo, potendo, a suo parere, ravvisarsi la buona fede in capo alla imputata in quanto essa "vantava pretese sulla provvista economica con la quale sono
stati effettuati gli investimenti bancari di cui alla comunicazione bancaria".
Per la riforma della statuizione della Corte d´appello, l´ex marito proponeva ricorso in cassazione.
La decisione della SC
La Corte ha accolto il ricorso ritenendo fondato il suo secondo motivo, a proposito della condotta di cui al comma 2 dell´art. 616 c.p. e cioè il rivelare, senza giusta causa, in tutto o in parte, il contenuto
della corrispondenza.
I giudici di appello - ha affermato la Cassazione - hanno posto a base della decisione impugnata una
ritenuta carenza di prova circa la sussistenza dell´elemento soggettivo del
reato, "posto che, sulla base della ricostruzione del fatto recepita in sentenza, "hanno
considerato che l´imputata potesse versare nella ragionevole convinzione che
la documentazione bancaria in questione riguardasse prodotti finanziari acquistati in tutto o in parte con suo denaro, seppure formalmente intestati
al coniuge. Da ciò i giudici dell´appello, conformemente al primo grado,
hanno tratto la convinzione che non potesse sussistere dimostrazione
adeguata della consapevolezza, in capo all´imputata, di violare e divulgare
corrispondenza destinata esclusivamente ad altri soggetti".
Ma tale argomentazione - hanno osservato gli Ermellini - appare del tutto carente ed apodittica,
poiché trasferisce alla condotta di rivelazione della corrispondenza gli stessi
argomenti utilizzati a proposito della condotta di cui al primo comma dell´art.
616 cod.pen. senza avvedersi che
trattasi di condotte completamente diverse.
Ed infatti, "se al momento della apertura della corrispondenza indirizzata
all´ex coniuge può anche ritenersi ipotizzabile un qualche legittimo dubbio
dell´imputata sull´effettivo contenuto della lettera e dunque in merito alla
possibile inerenza degli investimenti ivi descritti rispetto a denaro in tutto o in parte proprio, non altrettanto può automaticamente dirsi per la condotta di divulgazione di un contenuto oramai conosciuto come relativo a conti intestati esclusivamente al marito".
In sostanza, ha affermato la Suprema Corte, "al momento della
divulgazione della corrispondenza di causa, nessun legittimo dubbio poteva
più sussistere in relazione al fatto che si stesse rendendo noto a terzi il contenuto di una corrispondenza bancaria contenuta in busta chiusa e
indirizzata esclusivamente all´ex".
Riguardo la possibile appartenenza alla donna (in tutto o in parte) dei fondi che avevano costituito la provvista degli investimenti decritti nella corrispondenza
in questione (tesi giudicata non implausibile dalla Corte territoriale), il dubbio che sussiste al riguardo non sarebbe comunque tale, ad avviso della Corte, a spogliare il fatto di rilevanza penale, causata dalla condotta materiale integrativa del reato (rivelazione di corrispondenza chiusa
indirizzata ad altri), ed essendo perciò irrilevante l´esistenza di un diritto su diverso
bene (il denaro impiegato per l´acquisto di strumenti finanziari).
Avv. Giovanni Di Martino