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Con l'ordinanza n. 30837 dello scorso 26 novembre in materia di patto di quota lite, la II sezione civile della Corte di Cassazione ha dichiarato nullo un patto con cui, determinando il compenso nella misura del 20% delle somme ottenute a titolo di risarcimento in caso di vittoria, non si prevedeva una trattativa individuale per la determinazione del compenso sulla base delle aspettative di vittoria e del valore della causa.
Si è quindi specificato che la l'aleatorietà dell'accordo quotalizio non esclude la possibilità di valutarne l'equità, valutando se la stima effettuata dalle parti era, all'epoca della conclusione dell'accordo, ragionevole o, al contrario, sproporzionata per eccesso rispetto alla tariffa di mercato, tenuto conto di tutti i fattori rilevanti, in particolare del valore e della complessità della lite e della natura del servizio professionale, comprensivo dell'assunzione del rischio.
Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dalla richiesta di un legale volta ad ottenere la condanna di un cliente al pagamento del compenso per prestazioni professionali, sulla base di una pattuizione del 2010 che determinava il compenso in ragione del 20% delle somme ottenute a titolo di risarcimento in caso di vittoria, oltre alle spese vive, anche nell'ipotesi di cambio di difensore nel corso di causa, mentre, in caso di soccombenza, era dovuto solamente l'acconto nella misura di Euro 1000,00.
Il Tribunale di Venezia, accoglieva solo parzialmente la pretesa dell'avvocato, determinando il compenso in relazione all'attività effettivamente svolta.
La Corte di appello di Venezia confermava la sentenza del giudice di primo grado, ritenendo come la clausola relativa al patto di quota lite stipulato tra le parti avesse natura vessatoria, ai sensi degli artt. 33 e 34 del Codice del Consumo, poiché determinava uno squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, obbligando il cliente a corrispondere la prestazione anche in caso di revoca e non prevedendo una trattativa individuale per la determinazione del compenso sulla base delle aspettative di vittoria e del valore della causa.
Inoltre, la corte territoriale riteneva altresì che, a seguito dell'abolizione del divieto del patto di quota lite, la congruità del patto andava vagliata anche dal punto di vista delle regole deontologiche, che consentono all'avvocato di pattuire con il cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, alla condizione, tuttavia, che i compensi siano proporzionati all'attività svolta.
Ricorrendo in Cassazione, il legale eccepiva violazione e falsa applicazione dell'articolo 1261 c.c., dell'art. 2 e 2 bis del d.l. 223/2006 e dell'art. 13, commi 3 e 4, della legge 247/2012, deducendo come, dall'interpretazione sistematica di dette norme, si evincerebbe la legittimità del patto di quota lite, se redatto in forma scritta e sempre che non abbia ad oggetto la cessione del bene litigioso.
Secondo il ricorrente, infatti, il d.l. 223/2006, disponendo l'abolizione del divieto previsto dall'art. 2233 c.c., comma 3, ha ammesso la liceità di quelle pattuizioni di compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, purché redatti in forma scritta.
La Cassazione non condivide la doglianza del ricorrente.
La Corte ricorda che il patto di quota si configura come un contratto aleatorio, in quanto il compenso varia in funzione dei benefici ottenuti in conseguenza dell'esito favorevole della lite: il suo tratto caratterizzante è dato, appunto, dal rischio, perché il risultato da raggiungere non è certo nel quantum nè, soprattutto, nell'an.
Tuttavia, l'aleatorietà dell'accordo quotalizio non esclude la possibilità di valutarne l'equità, valutando se la stima effettuata dalle parti era, all'epoca della conclusione dell'accordo, ragionevole o, al contrario, sproporzionata per eccesso rispetto alla tariffa di mercato, tenuto conto di tutti i fattori rilevanti, in particolare del valore e della complessità della lite e della natura del servizio professionale, comprensivo dell'assunzione del rischio.
Con specifico riferimento al caso di specie, la Corte di merito ha qualificato quella clausola come vessatoria in quanto obbligava il cliente a corrispondere la prestazione anche in caso di revoca; oltre a tale aspetto, correttamente non si è ritenuto congruo quel patto perché, oltre alla previsione per iscritto, non chiariva se vi fosse una trattativa individuale per la determinazione del compenso sulla base delle aspettative di vittoria e del valore della causa.
In ragione di tanto, la Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità.
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Nel 2010 mi sono laureata in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Bari; nel 2012 ho conseguito sia il Diploma di Specializzazione per le Professioni Legali presso l'Ateneo Barese che il Diploma di Master di II livello in "European Security and geopolitics, judiciary" presso la Lubelska Szkola Wyzsza W Rykach in Polonia.
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