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Demansionamento nullo ma deroga se rapporto rischia sua estinzione

Le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro sono prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del prestatore, e "ad una non rigida interpretazione dell´art. 2103 c.c. inducono le maggiori e notorie difficoltà in cui versa oggi il mercato del lavoro".
Il principio è stato affermato dalla Suprema Corte di Cassazione con Sentenza (qui allegata) n. 22798 del 9 novembre 2016.
La Suprema Corte ha applicato al caso rimesso al proprio esame il principio, tratto a seguito di una inversione di rotta rispetto all´orientamento precedente, in base al quale le deroghe all´espressa previsione di nullità di demansionamento sono giustificate nelle sole ipotesi in cui si assiste ad una oggettiva prevalenza dell´interesse del dipendente al mantenimento del posto di lavoro, rispetto alla salvaguardia di una professionalità che sarebbe comunque compromessa dall´estinzione del rapporto.
La questione
Nel caso culminato nella sentenza della Cassazione, un lavoratore vedeva accolto l´appello dallo stesso proposto avverso la sentenza del Giudice di prime cure, allo scopo di conseguire la declaratoria della nullità del licenziamento a lui irrogato dal datore di lavoro per "giustificato motivo oggettivo".
Infatti, la parte datoriale aveva proceduto a disporre nuove assunzioni, pur in mancata di un offerta al lavoratore licenziato dello svolgimento di compiti equivalenti o anche di livello inferiore, con conseguente carenza in ordine ad "ogni prova dell´impossibilità di repechage" e con la illegittimità del licenziamento, dichiarata, per l´appunto, dalla Corte territoriale.
Per la riforma della sentenza del giudice di II grado veniva proposto dal datore ricorso in Cassazione.
La decisione della Suprema Corte
I Giudici di Piazza Cavour, chiamati a decidere in ordine a tale controversia, hanno ritenuto di discostarsi dall´orientamento risalente: il divieto di demansionamento "non consente deroghe neppure nell´ipotesi in cui la sua applicazione possa risolversi in un pregiudizio per il lavoratore, in quanto - sancendo la nullità di ogni patto contrario al fine di eliminare ogni possibilità di elusione del divieto di variazione deteriore della posizione del lavoratore, e privilegiando così l´esigenza della certezza (...) può, quindi, in condizioni particolari, comportare anche un sacrificio per il prestatore di lavoro".
Tali nullità sono giustificate nelle sole ipotesi in cui esiste una oggettiva prevalenza dell´interesse del dipendente al mantenimento del posto di lavoro, rispetto alla salvaguardia di una professionalità che sarebbe comunque compromessa dall´estinzione del rapporto.
La Corte ha quindi richiamato l´arresto delle Sezioni Unite del 1998 secondo cui la sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa possono giustificare oggettivamente il recesso del datore di lavoro dal rapporto di lavoro subordinato, ai sensi della L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3, a condizione che risulti ineseguibile l´attività svolta in concreto dal prestatore e che non sia possibile assegnare il lavoratore a mansioni equivalenti ai sensi dell´art. 2103 c.c. ed eventualmente inferiori, in difetto di altre soluzioni.
Ritenendo, in conclusione, che le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro sono prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del prestatore, rilevandosi già all´epoca che "ad una non rigida interpretazione dell´art. 2103 c.c. inducono le maggiori e notorie difficoltà in cui versa oggi il mercato del lavoro".
Ciò detto il Supremo Collegio ha rigettato il ricorso proposto dalla datrice di lavoro.
Sentenza allegata



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