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Coniuge geloso, SC: “Commette reato se controlla le chat del partner”

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Con la pronuncia n. 2905 dello scorso 22 gennaio, la V sezione penale della Corte di Cassazione ha condannato, ex art. 615 ter c.p., un marito che aveva effettuato un accesso abusivo al profilo Facebook della moglie, così fotografando delle chat intrattenute tra la donna ed un altro uomo.

In particolare, la Corte ha escluso che la condotta dell'uomo potesse ritenersi scriminata dalla circostanza che era stata la stessa persona offesa a comunicargli le password di accesso, giacché mediante gli accessi si era ottenuto un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona offesa ed esorbitante rispetto a qualsiasi possibile ambito autorizzatorio del titolare dello ius excludendi alios, vale a dire la conoscenza di conversazioni riservate e finanche l'estromissione dall'account Facebook della titolare del profilo e l'impossibilità di accedervi.

Il caso sottoposto all'attenzione della Corte prende avvio dall'esercizio dell'azione penale nei confronti di un uomo, accusato per il reato di cui all'art. 615 ter c.p., commesso accedendo al profilo Facebook della moglie grazie al nome utente ed alla password utilizzati da quest'ultima, a lui noti da prima che la loro relazione si incrinasse.

Sia il Giudice monocratico del Tribunale di Palermo che la Corte di appello di Palermo condannavano l'uomo per il reato di accesso abusivo a sistema informatico, evidenziando come l'imputato – accedendo al profilo della moglie – aveva potuto fotografare una chat intrattenuta dalla stessa con un altro uomo e poi cambiare la password, sì da impedire alla persona offesa di accedere al social network. 

 Il marito proponeva ricorso per Cassazione, denunciando vizi di motivazione della sentenza impugnata e violazione di legge circa la valutazione della prova.

Più nel dettaglio, l'imputato sosteneva come la sentenza d'appello non avesse adeguatamente replicato alle segnalazioni da lui rilevate nel corso dell'istruttoria di entrambi i gradi del giudizio, allorquando aveva segnalato che la scoperta della conversazione era avvenuta per caso: il ricorrente sosteneva di essersi collegato da remoto al suo PC tramite il cellulare, quando era fuori casa ed aveva così potuto vedere sul desktop del computer la conversazione in atto.

In secondo luogo – in relazione alla specifica accusa contestatagli secondo cui era stato proprio lui a collegarsi utilizzando l'utenza del padre – evidenziava come chiunque poteva collegarsi alla rete wi-fi di suo padre ed accedere al profilo Facebook della moglie, presidiato da codici di accesso piuttosto comuni.

In ultima istanza, negava che nel caso di specie si fosse integrata la fattispecie di cui all'art. 615-ter c.p., perché la password era stata comunicata dalla stessa persona offesa.

La Cassazione non condivide le tesi difensive dell'imputato.

Gli Ermellini rilevano come le censure formulate dal ricorrente mirino a prospettare una diversa valutazione dei fatti, basata sulla personale lettura che lo stesso vorrebbe fornire degli accadimenti, così postulando l'esistenza di una diversa realtà, antitetica a quella accertata nel corso del giudizio di merito, e pretendendo di rivalutare gli elementi probatori al fine di trarre proprie conclusioni, anche queste in contrasto con quelle della Corte di appello.

Tale operazione, tuttavia, non è consentita nel giudizio in Cassazione, ove non è possibile ottenere un nuovo esame del fatto: esula, infatti, dai poteri del Giudice di legittimità rileggere gli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito.

Di contro la Corte territoriale ha fornito una motivazione incensurabile, dal momento che è stata correttamente e razionalmente valutata la convergenza tra una serie di elementi, quali il comportamento dell'uomo estremamente geloso – che, dopo aver effettuato l'accesso abusivo, mostrava alla moglie le chat incriminate – e la circostanza, certa ed obiettiva, della connessione servita per modificare la password, avvenuta dalla casa del padre dell'imputato.

Di fronte a tali fatti certi e provati, non vale ad escludere la ricorrenza della fattispecie incriminatrice la circostanza che l'imputato avesse avuto dalla stessa moglie le credenziali di accesso a Facebook: secondo la Cassazione, infatti, quand'anche fosse stata quest'ultima a renderle note – fornendogli così un'implicita autorizzazione all'accesso – non sarebbe comunque escluso il carattere abusivo degli accessi, in quanto mediante questi ultimi si è ottenuto un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona offesa ed esorbitante rispetto a qualsiasi possibile ambito autorizzatorio del titolare dello ius excludendi alios, vale a dire la conoscenza di conversazioni riservate e finanche l'estromissione dall'account Facebook della titolare del profilo e l'impossibilità di accedervi.

In conclusione la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso dell'uomo e lo condanna al pagamento delle spese processuali. 

 

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