Ci attende un anno caldissimo sul versante previdenziale. È bene allora sgombrare il campo da troppi equivoci che si diffondono sul tema dei diritti quesiti.
In mancanza di una definizione normativa di ´diritto quesito´, appare necessario fare ricorso ai principi generali dell´ordinamento e all´elaborazione giurisprudenziale in materia.
Irretroattività delle leggi.
Sotto il primo profilo, rileva in particolare, il principio dell´irretroattività delle leggi, sancito a chiare lettere dall´art. 11 delle pre-leggi.
Si legge, infatti, che ´la legge non dispone che per l´avvenire: essa non ha effetto retroattivo´.
Tale principio, evidentemente ispirato all´esigenza superiore della certezza del diritto, esclude (in linea generale) che una norma giuridica possa applicarsi ad atti, fatti, eventi o situazioni verificatesi prima della sua entrata in vigore, per i quali si suole parlare di ´diritti quesiti´.
In verità, poiché il principio dell´irretroattività delle leggi, pur costituendo un fondamentale valore di civiltà e principio generale dell´ordinamento, non è stato elevato a dignità costituzionale (ad eccezione della previsione dell´art. 25 Cost. limitatamente all´irretroattività della legge penale incriminatrice), può in teoria essere derogato.
Il legislatore, infatti, fermo restando il predetto limite dell´irretroattività della legge penale, può emanare norme con efficacia retroattiva ´a condizione che la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si ponga in contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente prodotti´ (Corte Costituzionale, sentenza n. 263/02; 136/01; 374/00 e 229/99).
La teoria del ´fatto compiuto´.
In pratica, dunque, è sempre risultato problematico individuare diritti effettivamente quesiti per via delle numerose eccezioni previste da legislazioni più o meno transitorie.
Proprio a causa dell´indeterminatezza della nozione, che ha trovato affermazione la diversa teoria del ´fatto compiuto´ (facta praeterita), in virtù della quale le nuove norme non estendono la loro efficacia ai fatti compiuti sotto il vigore della legge precedente, benché dei fatti stessi siano pendenti gli effetti.
In altre parole, se può ragionevolmente affermarsi che una nuova disposizione non può trovare applicazione nei riguardi di rapporti giuridici che hanno esaurito i propri effetti, altrettanto non può dirsi con riferimento ai rapporti di durata (Cassazione, sez. lavoro, sentenza n. 19351/07 laddove si afferma che ´l´unico limite in materia è dato dall´intangibilità di quei diritti che siano già entrati a far parte del patrimonio del lavoratore, quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita. Ne consegue – aggiunge la Suprema Corte – che la tematica dei diritti quesiti attiene unicamente a queste ultime posizioni´).
Il diritto pensionistico.
E´ consolidato l´orientamento giurisprudenziale secondo cui il diritto pensionistico diventa ´quesito´, nella accezione e con i limiti sopra detti , solo nel momento in cui l´interessato perfeziona il diritto alla pensione , maturando i requisiti necessari per essere collocato a riposo. Ciò determina il nascere di un vero e proprio diritto soggettivo con applicazione del conseguente trattamento di quiescenza secondo le norme in vigore in detto momento. Precedentemente l´interessato può vantare solo un´aspettativa ad un determinato trattamento di quiescenza e non può dolersi di eventuali modifiche in peius delle disposizioni previdenziali incidenti anche sul proprio trattamento, ma solo il rispetto del principio del pro rata temporis!
Il problema dunque è capire fino a che punto la legge possa disporre per il passato, specie laddove venga a impattare sull´erogazione di prestazioni per le quali vengano in rilievo ´altri valori e interessi costituzionalmente protetti´, come nel caso della corresponsione della retribuzione o, per quanto qui rileva, delle prestazioni previdenziali (´I limiti costituzionali alla revisione delle pensioni: le prospettive per il futuro´, di Antonella Valeriani in Working Paper ADAPT, 19 marzo 2014, n. 152).
Dire quindi che il trattamento pensionistico è ormai maturato e che nessuno lo può più toccare, semplicemente è un non senso a livello sistematico.
Le argomentazioni utilizzate dalla giurisprudenza costituzionale a favore dei diritti acquisiti si basano principalmente sull´art. 36 Cost. e sull´art. 38 Cost. che enuncia il principio di adeguatezza dei mezzi di sostentamento in caso di vecchiaia.
Le pensioni vengono dalla giurisprudenza equiparate a tutti gli effetti a un reddito differito dove lo Stato non potrebbe, tendenzialmente, ridurre successivamente l´entità delle pensioni senza violare il principio di ragionevolezza, di affidamento e di adeguatezza del trattamento.
A questo punto bisogna però fare una distinzione assolutamente fondamentale tra le prestazioni pensionistiche che sono state finanziate dal montante contributivo versato e quelle che sono risultate più generose rispetto alla contribuzione versata.
Le prime sono le uniche effettivamente intangibili mentre tutte le altre, per la parte non finanziata dalla contribuzione versata possono essere ridotte a equità di fronte all´insostenibilità finanziaria del sistema previdenziale e in un contesto di risorse limitate.
La recente sentenza n. 124/17 della Corte Costituzionale ha ribadito la correttezza di questa impostazione.
Ed infatti la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondante le questioni di legittimità costituzionale prospettate in relazione a diversi parametri costituzionali, sottolineando che la disciplina del tetto massimo di € 240.000,00 annui si iscrive in un contesto di risorse limitate, che devono essere ripartite in maniera congrua e trasparente.
Il limite delle risorse disponibili, scrive la Corte, vincola il legislatore a scelte preordinate a bilanciare molteplici valori di rango costituzionale, tra i quali spiccano non solo il diritto dei funzionari a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e a un´adeguata tutela previdenziale, ma anche la solidarietà tra le diverse generazioni che interagiscono nel mercato del lavoro, in una prospettiva volta a garantire un equo ed effettivo accesso alle opportunità di occupazione che si presentano.
In questo contesto il legislatore gode di un´ampia discrezionalità nel bilanciare i diversi valori coinvolti, purché la disciplina non sia manifestamente irragionevole.
Ma quali sono i criteri per determinare se una disciplina sia o meno manifestamente irragionevole?
Anzitutto occorre valutare quali siano le finalità perseguite.
Non è irragionevole che, in presenza di risorse limitate, il legislatore ponga in essere misure di contenimento e di complessiva razionalizzazione della spesa pubblica.
In secondo luogo l´intervento del legislatore non può essere discriminatorio nel senso che gli interventi debbono avere una valenza generale, per esempio, per l´intero comparto pubblico.
La lezione che si ricava dalla sentenza n. 124/17 della Corte Costituzionale è che i trattamenti retributivi e quelli previdenziali, cosi come qualsiasi altra prestazione attribuita nell´ambito di un rapporto di durata, com´è tipicamente quello previdenziale, ben possono essere oggetto di una rivalutazione ponderata degli effetti di lungo periodo che prevalgono su altri interessi generali.
In un quadro di politiche economiche e sociali in perenne evoluzione, spetta quindi al legislatore elaborare soluzioni diverse e modulare le posizioni di vantaggio anche in rapporto alle mutevoli esigenze di riassetto complessivo della spesa e di riqualificazione delle risorse in favore delle nuove generazioni.
Unico limite all´intervento riduttivo del legislatore è dato dalle sole prestazioni pensionistiche interamente finanziate dal montante contributivo versato.
Avvocato Paolo Rosa