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Ginecologo, SC: “Non è responsabile per il sangue infetto trasfuso durante il cesareo”

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Con la sentenza n. 25764 dello scorso 14 ottobre, la Cassazione, pronunciandosi sulla domanda risarcitoria avanzata dagli eredi di una donna per l' epatite contratta a seguito delle trasfusioni di sangue infetto eseguite nel corso di un parto cesareo, ha accolto le difese del ginecologo, secondo il quale solo il primario di ematologia, quale responsabile del centro trasfusionale, poteva ritenersi responsabile della mancata esecuzione, da parte del centro da lui diretto, dei controlli previsti dalla legge.

Si è, difatti, statuito che "occorre tenere distinte le annotazioni che devono comparire sulla cartella clinica, di competenza dell'equipe chirurgica, e le annotazioni che devono comparire sulle sacche di sangue, di competenza del servizio ematologico dell'ospedale. La mancata annotazione sulla cartella del superamento degli esami sierologici non può essere elemento idoneo a ritenere il chirurgo somministrante responsabile per il contagio, in quanto questo controllo ricade sul centro trasfusionale interno".

Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio da una richiesta di risarcimento danni avanzata dagli eredi di una donna, morta a causa di una cirrosi epatica da HCV, contratta in seguito a due emotrasfusioni di sangue infetto, praticatele in occasione di un intervento di parto cesareo; gli eredi citavano in giudizio, oltre alla struttura ospedaliera ove erano state praticate le trasfusioni, anche i primari dei reparti di Ginecologia e di Inimunoematologia del medesimo ospedale.

Gli attori deducevano che nella cartella clinica, in relazione alle predette trasfusioni, erano stati annotati solo il gruppo sanguigno e il numero delle sacche, senza indicazione dei test immunologici effettuati e del relativo esito; evidenziavano, inoltre, tutte le carenze in cui erano incorsi i convenuti nelle procedure di controllo a distanza del donatore, non essendo stati in grado di evadere la richiesta di consegna dei registri relativi alla provenienza delle sacche ematiche trasfuse, in quanto non conservati presso l'Ospedale, così come imposto dall'art. 3 della L. n. 210/1992. 

Il Tribunale – ritenuto sussistente il nesso di causalità tra le trasfusioni e l'insorgere della cirrosi da HCV – accoglieva la domanda, condannando le parti convenute al risarcimento del danno non patrimoniale.

La pronuncia veniva confermata anche in secondo grado: in relazione alla specifica posizione del primario di ginecologia, la Corte di Appello gli contestava di esser venuto meno ai suoi obblighi di vigilanza quale primario del reparto, rilevando comenon doveva consentire l'utilizzo di sangue in presenza di un'etichettatura che si presentava, presuntivamente, incompleta (in quanto sulle sacche risultava indicato solo il gruppo sanguigno e il numero di provetta); il primario, d'altro canto, non aveva offerto la prova che le sacche somministrate fossero state sottoposte a tutti i controlli sierologici obbligatori, né si era astenuto dal trasfondere il sangue alla paziente in assenza di una "etichettatura" da cui desumere che tali test fossero stati correttamente eseguiti.

Ricorrendo in Cassazione, il ginecologo evidenziava come, dalla normativa di settore, non si evincesse alcun l'obbligo del chirurgo, che richiede sangue al reparto di Medicina trasfusionale, di effettuare ulteriori controlli sul plasma da somministrare rispetto a quelli già eseguiti, potendo egli legittimamente fare affidamento sul preventivo controllo effettuato dalla struttura di riferimento. Eccepiva, inoltre, come nessuna disposizione di legge imputava al primario di un reparto gli errori – quali l'omessa o irregolare tenuta delle registrazioni relative ai donatori, i controlli effettuati sul plasma e le prove di compatibilità con i soggetti riceventi – relativi ad attività competenti al diverso reparto ospedaliero di Ematologia. 

La Cassazione condivide l'assunto del medico.

Gli Ermellini evidenziano come gli originari attori abbiano rivolto l'azione nei confronti di una estesa platea di medici, a vario titolo ritenuti responsabili. La posizione di ciascuno di essi è però diversa e va collegata alla violazione e/o omissione di specifici obblighi di garanzia imposti dalla legge.

Con specifico riferimento alla posizione del ginecologo, nessuna responsabilità può essergli ascritta, avendo egli acquisito le sacche di sangue attraverso la procedura in uso in quell'ospedale, che disponeva di un centro trasfusionale interno.

Sul punto, la Corte precisa che in una struttura sanitaria ospedaliera, organizzata in una pluralità di reparti, ove esista un responsabile del reparto di ematologia e del servizio trasfusionale, ciò che compete al chirurgo operatore nel caso di trasfusione è verificare ed indicare in cartella che il gruppo sanguigno del paziente sia compatibile con il gruppo sanguigno del donatore e riportare sulla cartella gli elementi identificativi della singola sacca di sangue somministrata. Non spetta al primario di chirurgia, né al chirurgo operatore effettuare direttamente il controllo sul sangue, né la regolare tenuta dei registri o la verifica della preventiva sottoposizione a tutti i test sierologici richiesti dalla legge della sacche di sangue trasfuse, in quanto si tratta di controlli di competenza del centro trasfusionale.

Compiute queste precisazioni, la Cassazione accoglie il ricorso. 

 

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