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"Se ti comporti con onestà e coraggio, non devi aver paura di nulla". Parole di Serafino Famà, avvocato penalista, ucciso il 9 novembre 1995 all'età di 57 anni nella città di Catania.
Ripercorriamo quei tragici momenti.
La sera del 9 novembre 1995, alle 21 circa, Serafino Famà e il collega Michele Ragonese escono dallo studio e, all'angolo tra viale Raffaello Sanzio e via Oliveto Scammacca, vengono esplosi sei colpi di pistola calibro 7,65 che colpiscono l'avvocato Famà. La vittima dell'agguato si accascia al suolo e muore alle 21.20 circa, dopo una inutile corsa in ambulanza al Pronto Soccorso dell'ospedale Garibaldi.
È stato un suggerimento legale dato ad una cliente in una terra di mafia e di boss a costare la vita all'avvocato Serafino Famà. Nella sentenza che ha definito il giudizio contro mandanti ed esecutori si legge: «La mancata deposizione della Corrado, certamente conseguente all'intervento dell'avvocato Famà, era stata vista dal Di Giacomo come la causa diretta della irrealizzabilità del proprio scopo, ovvero la scarcerazione».
I giudici, nelle motivazioni della sentenza di colpevolezza a carico degli imputati, pronunciata il 4 novembre 1999, scrivono: «Le risultanze processuali pertanto, per come sopra evidenziato, hanno dimostrato che il movente dell'omicidio in esame va individuato esclusivamente nel corretto esercizio dell'attività professionale espletata dall'avvocato Famà».
Catti, Amante, Di Mauro, Di Giacomo, Fichera, Gangi e Torrisi gli esecutori e gli autisti sono stati condannati all'ergastolo. Al collaboratore di giustizia Alfio Giuffrida e a Giuffrida Alfio Lucio è stata comminata la pena di diciotto anni di reclusione.
Ed anche ieri Serafino Famà è stato ricordato dagli avvocati etnei con un convegno organizzato dalla camera penale di Catania che ha avuto una significativa appendice in un momento di raccoglimento al quale hanno partecipato gli avvocati, in toga, portandosi da luogo del convegno all'atrio del tribunale.
Una figura straordinaria, quella del penalista catanese, che ricordiamo con due testimonianze, quelle di un magistrato e di un avvocato che fu anche suo allievo. Di seguito gli interventi di Sebastiano Ardita e di Goffredo D'Antona.
Il mio ricordo dell'avvocato Serafino Fama', un Uomo vero (di Sebastiano Ardita)
Ho in mente questa scena come se fosse accaduta ieri: davanti al bar del Tribunale, l'avvocato Serafino Famà che si allontanava tirando a sé sottobraccio un collega. Era sempre energico, imprevedibile e ironico. Accettava la battuta anche sul suo look un po' eccentrico, con la barba e i ca-pelli folti e ricci che incorniciavano i lineamenti marcati e lo rendevano inconfondibile. Arrivava in Tribunale con la giacca di velluto sopra il maglione a collo alto. Abiti comodi che gli consentivano di muoversi con l'agilità di un felino. Nel suo ruolo di professionista era sagace e determinato. Non ti lasciava uno spazio libero, come nel calcio un mastino di difesa abituato a marcare a uomo e a renderti impossibile il controllo di palla. Non gli sfuggiva nulla. Se rilevava una minima contraddizione, te la sbatteva in faccia per farti crollare l'impianto accusatorio.Non faceva sconti sul campo, l'avvocato Famà. Era orgoglioso e fedele al suo mandato difensivo. La difesa come diritto inviolabile dell'imputato te la faceva sentire addosso tutta intera. Durante il controesame non gradiva essere interrotto. Se doveva mandare al diavolo un pubblico ministero lo faceva volentieri, e ogni tanto volavano in aula parole grosse. Una volta dovette abbandonare il campo, espulso dall'«arbitro». Cose che capitano a quegli allenatori sanguigni che seguono la partita in piedi e non si lasciano sfuggire un'azione. Era così, tutto d'un pezzo. Non conosceva le mezze misure, e dentro lo spazio che gli era assegnato voleva essere rispettato. Non era un avvocato di corridoio, era un legale da campo aperto di battaglia. E in questo suo atteggiamento non conosceva riverenze, né sottomissioni nei confronti di chicchessia.Un giorno, mentre sostenevo l'accusa in un processo alla mia solita udienza del martedì, dinanzi alla sezione che curava i reati tributari, un giovane avvocato del suo studio ebbe un battibecco con l'anziano presidente. Il legale chiedeva che il Tribunale ammettesse una prova e voleva versare alcuni atti che appartenevano a un altro procedimento. Ma il Tribunale rigettò la richiesta – che non era affatto pretestuosa – e quando il giovane insistette il presidente lo interruppe. Nacque una piccola discussione, finché l'anziano magistrato alzando la voce non gli tolse la parola in malo modo e rinviò il processo di una settimana esatta. La settimana dopo, quando fu riaperto il dibattimento, improvvisamente si materializzò una sagoma appoggiata alla balaustra dell'aula che segna il perimetro della zona riservata agli addetti ai lavori. Era l'avvocato Famà, che stava tre metri più indietro del suo giovane collega. La sua presenza era un messaggio piuttosto chiaro indirizzato a chi presiedeva quel collegio: se vuoi maltrattare un giovane avvocato che sta facendo il suo lavoro devi avere il coraggio di farlo davanti a me. Il presidente notò Famà e – quando il giovane ribadì la richiesta – fu molto più garbato nell'articolare il suo diniego. La decisione rimase uguale nel merito, ma questa volta venne esposta con molta calma e garbo. Talora alcuni magistrati, abituati a non essere mai contraddetti, rischiano di essere troppo sbrigativi anche nei modi. Ma per un avvocato con la schiena dritta conta anche questo: essere rispettato dai giudici. Del resto chi non ha nulla da temere e svolge il proprio ruolo con determinazione acquista credito nell'ambiente giudiziario. E ai miei occhi quella scena apparve come un gesto di coraggio e di solidarietà che incrementò la mia stima in lui. Con la sua tenacia e la sua combattività Famà si era ritagliato uno spazio importante. Difendeva una clientela composta di varia umanità, fatta anche di imputati che appartenevano a cosche mafiose. Ma lui metteva un'ampia scrivania tra sé e i clienti. Ascoltava quel che avevano da dire, raccoglieva gli elementi, ma poi la linea difensiva la elaborava lui. Non poteva tollerare che qualcuno suggerisse le sue mosse: le prove da fornire, gli argomenti da usare, le iniziative da prendere dovevano essere affar suo, e basta. Insomma, era sempre corretto e cortese, ma sapeva essere un duro se necessario. Ed è per questo che la notizia del suo omicidio, la sera del 9 novembre 1995, ci scosse davvero tutti. Mentre usciva dallo studio in compagnia di un collega, per recarsi a casa, come sempre, un commando lo assalì alle spalle. Uno dei sicari lo chiamò per nome e quando lui si girò gli esplose contro diversi colpi di pistola al petto e al volto. Quella morte fece piombare il mondo giudiziario in un'angoscia profonda e ci poneva innanzi a un indecifrabile rebus. Perché un avvocato e perché proprio Famà? Era difficile capire cosa potesse esserci dietro...
Questo il ricordo che ne ha tracciato l'avvocato Goffredo D'antona, del foro di Catania, suo amico ed allievo.
"È una sera come tante di un primo autunno. È arrivato il primo freddo. Sono a casa di un amico. Anzi a casa dei genitori di un amico (a quel tempo quasi nessuno era spostato e si viveva ancora a casa di mamma e papà). Guardiamo in tv la trasmissione di Santoro, non ricordo come si chiamasse all'ora. Si parla di mafia e di pentiti. È il 9 novembre del 1995. Santoro interrompe i dialoganduellanti. Per dare una notizia da Catania: lavvocato Serafino Famà difensore di Piddu Madonia, del Malpassotu...
A questo punto dilato il tempo. Mi immagino che l'Avvocato abbia chiamato in trasmissione per dire la sua. È sempre il solito. Ora mi immagino di sentire la sua voce litigare con tutti i presenti, Santoro, Claudio Fava, i cameramen. Ma il tempo si può dilatare quanto si quanto si vuole ma poi si arriva sempre a un punto. E il punto è che... è stato ucciso pochi minuti fa, in un agguato, a colpi di pistola. Guardo l'orologio l'ho lasciato in studio con un altro avvocato 15 minuti prima. Non è possibile. E invece. No.
Quando è stato ucciso era nella piena maturità professionale. Eravamo dieci in studio. E non avevamo tempo per annoiarci. Provo tristezza a cercar di parlar dell'Avvocato con chi non l'ha mai conosciuto. A volte mi sembra impossibile che il Palazzo non abbia memoria di una persona così. Gli è stata dedicata un'aula di corte di assise. Ma oggi tutti la chiamano aula Famà. Senza premettere quelle tre lettere di avv. Molti oggi parlano di quell'aula senza neanche sapere chi fosse l'avvocato Famà. Come quell'aula (Condorelli) di Villa Cerami. Un conto è dire piazza Falcone e Borsellino altro e parlare di un'aula Famà. C'è pure una lapide ricordo in Tribunale. E la memoria si perde.
In questo sfogo è impossibile descrivere l'Avvocato. Alcuni tratti però possono essere detti. Ogni sei mesi comprava un codice nuovo. Sulla sua scrivania, c'era sempre un libro che tutti gli avvocati dovrebbero leggere, Elogio dei Giudici. Il processo lo studiava dalla relata di notifica al timbro del cancelliere. Quando aveva finito le sue udienza camminava nel corridoio del Tribunale si sceglieva un aula e si metteva seduto ad ascoltare gli altri, perché c'è sempre da imparare nell'ascolto.
A volte si incazzava. Quando vedeva avvocati maleducati ed impreparati. Quando vedeva un ragazzino seduto in prima fila ed un avvocato anziano in piedi. Sto parlando di una persona normale. Ma oggi forse la normalità è merce rara.
P.S. Era juventino. Nessuno è perfetto".
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