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Commistione indebita tra pubblico impiego e attività forense? L’avvocato deve riversare i proventi percepiti all’amministrazione di appartenenza, anche se in part time.

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L'incompatibilità tra la professione forense e quella di pubblico dipendente poggia sulla radicale inconciliabilità degli interessi sottesi all'esercizio di tali due attività.

Il pubblico impiegato, funzionalmente inserito nell'apparato amministrativo, ha, infatti, il dovere di tutelare e perseguire il pubblico interesse.

Al contrario, l'avvocato ha il dovere di tutelare e realizzare l'interesse del privato.

Poiché implicanti il perseguimento di obiettivi confliggenti, sia il codice deontologico che il testo unico sul pubblico impiego, dettano una serie di regole volte ad evitare, salvo alcune eccezioni, che il medesimo soggetto svolga contemporaneamente tali due attività.

La sezione lavoro della Corte di Cassazione, con una recentissima ordinanza (ord. n. 31776/2023), ha affrontato nuovamente la questione dell'incompatibilità in discorso, ciò, nell'ambito di una controversia che ha visto come protagonista un dipendente comunale in part time che, diventato avvocato e iscrittosi all'albo, aveva mantenuto l'iscrizione anche dopo la scadenza del termine previsto per l'esercizio del diritto di opzione. 

 Il Comune, dopo averlo sottoposto a procedimento disciplinare, gli aveva inflitto la sanzione della sospensione dal servizio, chiedendogli, altresì, la restituzione dei proventi percepiti per l'esercizio della professione forense dal giorno in cui aveva intrapreso la l'attività, sino al licenziamento.

Nel pubblico impiego, infatti, il settimo comma della D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, stabilisce che, qualora il pubblico dipendente svolga un incarico retribuito senza essere stato preventivamente autorizzato dall'amministrazione di appartenenza "il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti".

Secondo il lavoratore, tale disposizione non poteva essere applicata agli impiegati in part time, essendo questi ultimi espressamente sottratti dall'obbligo di riversare i proventi derivanti dall'esercizio dell'attività professionale, in forza del comma 6 del medesimo art. 53 D. Lgs. 165/2001.

Per i giudici della Suprema Corte, invece, la situazione di commistione indebita tra pubblico impiego e attività forense è da intendersi come non superabile in alcun modo.

 L'incompatibilità tra impiego pubblico (sia esso full time o part-time) ed esercizio della professione forense, infatti, risponde ad esigenze specifiche di interesse pubblico correlate proprio alla peculiare natura di tale attività privata ed ai possibili inconvenienti che possono scaturire dal suo intreccio con le caratteristiche del lavoro del pubblico dipendente. Stando così le cose, concludono i giudici di legittimità, se il comma 6 dell'art. 53 cit. esclude il recupero dei proventi di attività esercitate dai lavoratori part time solo se a costoro risulta "consentito da disposizioni speciali" l'espletamento di attività libero-professionali, allora la norma non può che essere letta, sul piano logico-sistematico, nel senso di imporre, viceversa, tale recupero, laddove lo svolgimento dell'attività professionale concomitante al pubblico impiego non sia stata autorizzata o non sia, a fortiori, in assoluto autorizzabile.

Conclusivamente, secondo la Cassazione, può escludersi il recupero dei proventi solo a condizione che il part-time del dipendente venga legittimamente esercitato in difetto di situazioni di incompatibilità assoluta con l'attività libero professionale, condizione che, qualora si tratti di attività forense, deve ritenersi irrealizzabile.

 

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