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Caporalato di Stato, così l´Italia sfrutta la sua meglio gioventù

A Daniela rimane il mare ("almeno questo mi consola") e a Silvia
neppure quello. Due storie tra le tante, raccontate da La Repubblica nella rubrica "Invece Concita". Che gridano vendetta. Mandateci le vostre storie perchè le racconteremo. Tutte. Fino a quando le cose cambieranno.
Tra le decine di mail che continuano ad arrivare sul tema "generazioni a confronto" e che rispondono a Chiara Schiavon, 31 anni, e ad Arturo C. 23 ve ne propongo oggi due, per me illuminanti. Sono una madre, Daniela Cerreti, e una figlia, Silvia Dessì. Daniela scrive da Roma, Silvia dalla Sardegna. Entrambe raccontano con rabbia, ma anche un residuo di speranza – la rabbia giusta ci mette parecchio a diventare disillusione, ed è un delitto politico da parte di chi governa non ascoltarla – di un orizzonte chiuso.
Daniela parla degli stage come del nuovo caporalato, e ha ragione. Silvia racconta una incredibile storia di disattenzione da parte delle istituzioni pubbliche che la ha impedito di attivare uno stage che aveva già vinto. Tanti hanno scritto che lamentarsi è sbagliato: secondo me è soprattutto inutile. D´altra parte mi chiedo e vi chiedo come rispondere a chi non esce dallo sfruttamento del lavoro gratuito istituzionalizzato, regolato per legge, addirittura esibito come un´opportunità. Lamentarsi è inutile, ma reagire è necessario.
Ecco Daniela. "Mia figlia ha 29 anni. Laurea in scienze politiche, specialistica con lode, master alla Bocconi e tanti stage. Anni di rinunce, di sacrifici economici per la famiglia. Al termine di ogni stage complimenti: sei molto brava, hai portato innovazione, grazie e ciao. Trecento euro al mese per lavorare 9 o 10 ore. Speri che stavolta riuscirai a restare ma non sarà così: avanti un altro. E´ il nuovo caporalato. Due euro l´ora per raccogliere la frutta nei campi, uno e mezzo per lo stagista. E arriva la depressione, l´ansia che non ti fa dormire. Li abbiamo chiamati bamboccioni, viziati. In realtà sono vittime di questo sistema che abbiamo generato noi, generazione precedente. Abbiamo lasciato che tutto questo avvenisse senza fare nulla, abbiamo smesso di lottare. Qualcuno metta fine a questo sfruttamento".
Di Silvia, che manda di sé una foto al mare che la consola - dice – potete leggere qui la lunga e bella lettera. Sintetizzo. Ha 35 anni, parla cinque lingue, laurea, Erasmus, curriculum eccellente. Solo stage e borse. Vince infine quella della Regione, programma Master and Back: ti formi e rientri. Sceglie un Istituto italiano di Cultura negli Usa. Per ottenere il visto le serve la lettera di invito della Istituto. Invia molte mail. Silenzio. Scadono i termini, Silvia rinuncia alla borsa che ha vinto.
La sua famiglia insiste perché reagisca, scrive al ministero degli Esteri. Succede allora che "un caldo pomeriggio estivo squilla il telefono di casa. La direttrice in persona dell´Istituto italiano di Cultura. Ripete, con tono didascalico, di non poter far nulla per il mio visto, dimostrando di non aver letto le email. Mi offre anche una lezione sull´importanza del rispetto delle gerarchie nella vita. Non avrei mai dovuto contattare la Segreteria di Frattini senza prima consultarla".
Lo scambio prosegue, ma ormai è tardi. "Penso che questa storia racchiuda il senso dei nostri tempi. Cosa siamo noi per le istituzioni, che valore hanno le nostre competenze, che possibilità abbiamo di crescere in un paese che finge di interessarsi a noi solo quando conviene, quando vengono minacciati i propri personali interessi". E nessuno che chieda scusa, naturalmente. Che tenda una mano dopo aver aperto la botola.
La Repubblica, 1 giugno "Invece Concita"

 

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