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Avvocati e ossequio al dovere di verità

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Il dovere della verità: tra osservanza e rinuncia al mandato per giusto motivo

L'avvocato nell'esercizio della sua professione non deve introdurre nel processo prove false o provenienti dalla parte che sappia essere false. In caso contrario, la sua condotta costituirebbe una violazione del dovere di verità previsto dal codice deontologico forense [1]. Il dovere di verità e quindi il divieto di introdurre o utilizzare prove false non si limitano al "processo". Essi vanno rispettati sempre, ossia in ogni "procedimento" anche al di fuori dello stretto ambito processuale. Ne consegue che avranno «rilevanza deontologica quelle condotte che, pur non riguardando strictu sensu l'esercizio della professione, ledano comunque gli elementari doveri di probità, dignità e decoro e, riflettendosi negativamente sull'attività professionale, compromettano l'immagine dell'avvocatura quale entità astratta con contestuale perdita di credibilità della categoria, a prescindere dalla notorietà delle condotte stesse» (CNF, sentenza n. 9/2015).

Il professionista ove «si trovi nella condizione di non poter seguire allo stesso tempo verità e mandato, leggi e cliente, la sua scelta deve privilegiare il più alto e pregnante dovere radicato sulla dignità professionale, ossia l'ossequio alla verità e alle leggi spinto fino all'epilogo della rinunzia al mandato in virtù di un tale giusto motivo, astenendosi dal porre in essere attività che siano in contrasto con il prevalente dovere di rispetto della legge e della verità«. Dovere, questo, che: 

  • «ispira la funzione difensiva in coerenza con il dovere di lealtà espressamente previsto dall'art. 3 L. n. 247/2012 con riferimento alla professione forense in generale, nonché dall'art. 88 cpc con specifico riguardo al processo» (CNF, sentenza n. 142/2018);
  • deve essere rispettato contestualmente al dovere di fedeltà nei confronti del cliente e a quello di difesa che impongono all'avvocato un impegno totale a favore della parte assistita, senza sconfinamento in un comportamento illecito (CNF, sentenza n. 188/2019). Ne discende che il professionista, pur non assumendo responsabilità per la ricostruzione dei fatti fornitagli dal cliente, deve astenersi, ad esempio, tanto da accuse consapevolmente false (art. 50 codice deontologico forense) quanto da critiche personali verso il collega (art. 42 codice deontologico forense) (CNF, sentenza n. 8/2018).

Il dovere di verità nella prassi

Si ritiene che:

  • «l'intenzionale violazione delle preclusioni processuali, finalizzata a ledere il principio del contraddittorio e il diritto di difesa, costituisce comportamento contrario ai doveri di lealtà, correttezza e colleganza, sanzionabile con applicazione analogica dell'art. 50 codice deontologico forense che disciplina il "Dovere di verità"(Nel caso di specie, l'avvocato aveva depositato in giudizio un documento solo con la comparsa conclusionale, ammettendo che la tardiva produzione documentale non era dovuta a negligenza, bensì quale vero e proprio "stratagemma per impattare e attirare l'attenzione del giudice in modo dirompente ai fini del giudizio" in quanto tesa a "provare la falsità dei testi di controparte". In applicazione del principio di cui in massima, il CNF ha ritenuto congrua la sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio dell'attività professionale per la durata di mesi tre)» (CNF, sentenza n. 188/2019);
  • assume rilevanza, sotto il profilo deontologico, il comportamento dell'avvocato che i) collabora alla predisposizione di un documento che attesti falsamente fatti che possono far conseguire al suo assistito benefici e che sono altrimenti valutabili; ii) utilizza tale documento nel procedimento penale (CDD Bologna, decisione n. 84/2019);
  • La rilevanza dell'illecito disciplinare posto in essere dal professionista con l'introduzione nel processo di una prova falsa, resta tale per il solo fatto della già avvenuta commissione dell'illecito stesso. Con l'ovvia conseguenza che non viene meno né quando l'avvocato rinuncia ad avvalersi della prova falsa, né quando detta prova sia caratterizzata da superfluità probatoria «(Nel caso di specie, trattavasi della ricevuta di accettazione di una raccomandata postale)» (CNF, sentenza n. 89/2017);
  • è condotta sanzionabile ex art. 50 codice deontologico forense quella posta in essere dall'avvocato che non dichiara, nell'atto introduttivo del giudizio, l'avvenuto decesso dell'attore; fatto, questo, che è «suscettibile di essere assunto come presupposto di un provvedimento del Tribunale adito» (CDD di Bologna, decisione n. 49/2019). E ciò in considerazione del fatto che «le dichiarazioni in giudizio relative all'esistenza di fatti o inesistenza di fatti obiettivi, che siano presupposto specifico per un provvedimento del magistrato e di cui l'avvocato abbia diretta conoscenza, devono essere vere e comunque tali da non indurre il giudice in errore» (CNF, sentenza n. 224/2018).

Nota

[1]. Art. 50 Codice deontologico forense

«1. L'avvocato non deve introdurre nel procedimento prove, elementi di prova o documenti che sappia essere falsi. 2. L'avvocato non deve utilizzare nel procedimento prove, elementi di prova o documenti prodotti o provenienti dalla parte assistita che sappia o apprenda essere falsi. 3. L'avvocato che apprenda, anche successivamente, dell'introduzione nel procedimento di prove, elementi di prova o documenti falsi, provenienti dalla parte assistita, non può utilizzarli o deve rinunciare al mandato. 4. L'avvocato non deve impegnare di fronte al giudice la propria parola sulla verità dei fatti esposti in giudizio. 5. L'avvocato, nel procedimento, non deve rendere false dichiarazioni sull'esistenza o inesistenza di fatti di cui abbia diretta conoscenza e suscettibili di essere assunti come presupposto di un provvedimento del magistrato. 6. L'avvocato, nella presentazione di istanze o richieste riguardanti lo stesso fatto, deve indicare i provvedimenti già ottenuti, compresi quelli di rigetto. 7. La violazione dei divieti di cui ai commi 1, 2, 3, 4 e 5 comporta l'applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio dell'attività professionale da uno a tre anni. La violazione del dovere di cui al comma 6 comporta l'applicazione della sanzione disciplinare dell'avvertimento». 

 

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