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Respinge avances del "capo", licenziata per ritorsione, Cassazione su onere della prova

Le avances sessuali ad una lavoratrice, che, in seguito al proprio rifiuto di acconsentire alle "passioni" del proprio datore di lavoro, sia stata per ritorsione da questi licenziata, conducono alla illegittimità del provvedimento solutorio, in quanto discriminatorie.
Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 20 luglio - 15 novembre 2016, n. 23286 a conclusione di una torbida vicenda di condizionamenti e ricatti. Un pronunciamento con il quale la Sezione ha anche affrontato alcuni delicati profili in tema di onere della prova.
La questione
Nel caso culminato nella pronuncia della Corte, il Tribunale di Pistoia dichiarava nullo il licenziamento intimato dal legale rappresentante di una ditta ad una sua dipendente in quanto del tutto discriminatorio e determinato da motivo illecito determinante (ritorsione dovuta al rifiuto della lavoratrice di sottostare a molestie sessuali). Conseguentemente, veniva ordinata la reintegrazione nel posto di lavoro della lavoratrice e veniva condannata parte datoriale a risarcirle i danni e a pagarle le differenze retributive derivanti dalla riqualificazione del rapporto di lavoro.
Analoghe statuizioni erano adottate - salvo che per il licenziamento - in relazione ad un´altra ex dipendente della predetta società, dimessasi per sottrarsi alle molestie sessuali del datore di lavoro.
Da qui, il ricorso dal datore di lavoro prima alla Corte d´appello e, in seguito alla conferma, da parte di questa, della statuizione del Tribunale, alla Suprema Corte di Cassazione.
La decisione della Corte
I Supremi Giudici si sono quindi trovati a dirimere una controversia causata dalla inammissibile condotta di un imprenditore "molestatore seriale", abituato a punire le dipendenti riluttanti con delle "punizioni " esemplari, quali, come nel caso in esame, il licenziamento.
Il Supremo Collegio ha dunque premesso che l´equiparazione fra discriminazioni di genere e molestie sessuali si rinviene, oltre che nell´art. 26 co. 2 d.lgs. n. 198/06, anche nella nozione di molestie sessuali contenuta nell´art. 2 co. 1, lett. d), stessa direttiva, che a sua volta riprende ed estende il concetto di molestia come discriminazione già contenuto nell´art. 2 co. 3 della direttiva 2000/78/CE.
La sentenza impugnata - ha aggiunto il Collegio - nel ribadire e fare proprie le motivazioni esposte nella pronuncia di primo grado, ha ravvisato la prova presuntiva delle molestie sessuali ai danni delle lavoratrici sulla base di plurime deposizioni che avevano riferito di molestie in loro danno, analoghe a quelle lamentate dalle stesse dipendenti, poste in essere dal loro "capo" subito dopo l´assunzione di giovani lavoratrici.
Tali deposizioni erano state inoltre corroborate dalla prova statistica fornita dall´Ufficio della Consigliera di Parità della Regione Toscana, costituita da un serrato turn over tra le giovani dipendenti assunte dall´imprenditore, che dopo un breve periodo di lavoro si dimettevano senza apparente ragione.
Il quadro probatorio - ha proseguito la Corte - ha quindi imposto quella legittima inversione dell´onere probatorio a carico del datore di lavoro prescritta dall´art. 40 d.lgs. 198/06 in ipotesi di discriminazione di sesso.
Seppure l´equiparazione tra molestie sessuali e discriminazioni, prevista in via generale dall´art. 26, si presta solo in parte, a causa della mancanza del trattamento differenziale, a riflettersi in tema di ripartizione dell´onere della prova - ha proseguito la Sezione - tuttavia le discriminazioni (di varia natura) possono emergere dal tertium comparationis costituito dal trattamento praticato rispetto ad altre categorie di lavoratori.
Un caso similare si pone, ad esempio, per la tematica dell´accesso alle posizioni apicali in seno ad una impresa: il tertium comparationis, costituito dal trattamento differenziale, può evidenziarsi confrontando le promozioni applicate agli uomini e quelle riconosciute alle loro colleghe donne.
Mentre, invece, riguardo alle molestie sessuali ai danni delle lavoratrici, il tertium comparationis è costituito da un trattamento differenziale negativo, ossia il non avere i lavoratori maschi patito molestie sessuali.
Anche se la valenza presuntiva è, in questo caso, logicamente, minore - ha concluso la Corte ritenendo infondata la doglianza dell´imprenditore - tale obiezione non è tale da inficiare la necessità dell´applicazione, anche al caso di specie, della regola probatoria di cui all´art. 40 cit.
In conclusione, il ricorso è stato rigettato.
Sentenza allegata
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