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Titoli edilizi e annullamento in autotutela: Il Consiglio di Stato limita l’esercizio del potere amministrativo

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 Tramite la sentenza n. 5277/2018 la Quarta Sezione del Consiglio di Stato ha esaminato l'annosa questione relativa all'annullamento d'ufficio di precedenti titoli edilizi, evidenziando i limiti all'esercizio di siffatto potere amministrativo e ricordando, tra l'altro, che i presupposti dell'esercizio del potere di annullamento d'ufficio dei titoli edilizi sono costituiti dall'originaria illegittimità del provvedimento, dall'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità violata), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari, elementi questi che devono essere tutti oggetto di adeguata valutazione di cui deve darsi contro tramite congrua motivazione, anche relativamente alla esclusione della possibilità di annullare i provvedimenti solo parzialmente recando minore sacrificio al privato.

I fatti di causa: tramite una prima concessione edilizia del 1999 il Comune autorizzava la realizzazione di un edificio destinato ad autorimessa per autobus e di un edificio a destinazione commerciale; dette opere sarebbero state realizzate in cd. commistione funzionale in modo che l'autorimessa sarebbe stata ceduta al Comune a un prezzo calmierato.

Nel 2002 i nuovi proprietari dell'area su cui dovevano realizzarsi dette opere oggetto di concessione edilizia non ancora eseguita compulsavano invano il Comune a definire gli accordi relativi alla cessione dell'autorimessa; non ricevendo manifestazioni di interesse da parte del Comune, essi aderivano all'avviso dell'ASL volto all'acquisto di immobili da destinare a sede del distretto sanitario, cosicché nel 2004 i nuovi proprietari dell'area chiedevano e ottenevano dal Comune la concessione edilizia per il cambio di destinazione d'uso.

Nel 2006 i proprietari dell'area stipulavano con l'ASL un contratto preliminare di compravendita di rilevante valore economico e nel 2007 il Comune emetteva permesso di costruire per la realizzazione dei locali da destinare all'uso dell'Azienda sanitaria locale.

Nel 2012 il Comune partecipava attivamente al progetto in corso tant'è che approvava uno schema di accordo tra l'Ente territoriale, l'ASL e i proprietari dell'area al fine di subentrare nel rapporto contrattuale.

Tuttavia nel 2014 il Comune emetteva il provvedimento di annullamento d'ufficio dei permessi di costruire del 2004 e del 2007 (previa comunicazione di avvio del procedimento avvenuta nel 2011).

Impugnato detto provvedimento davanti al competente T.A.R. Campania, quest'ultimo riteneva fondato il ricorso, considerato che a) sebbene l'atto censurato si componesse di ben 44 pagine, non presentava la necessaria congrua motivazione sul pubblico interesse in comparazione con quello privato ad esso contrapposto; b) la motivazione del provvedimento doveva essere particolarmente pregnante avuto riguardo a diversi profili della vicenda quali il rilascio di un secondo titolo edilizio (2007), implicitamente confermativo della legittimità del precedente (2004), il decorso (2014) di un notevole lasso di tempo dal loro rilascio (2004 e 2007) e dalla stessa attivazione del procedimento di autotutela (2011), il disinteresse manifestato dal Comune nell'acquisizione della disponibilità dell'immobile; c) il Comune aveva omesso di valutare in concreto per quale ragione la perdita di parcheggi pubblici avesse recato "pregiudizio al corretto sviluppo urbanistico dell'area e alla pianificazione del territorio"; d) lo stesso Comune, in vista di un ritorno economico, aveva ipotizzato il mantenimento della destinazione a distretto sanitario ASL, rapporto in cui voleva addirittura subentrare, per tal via rappresentando di avere un interesse meramente patrimoniale che andava comparato con quello dei proprietari, invece non adeguatamente ponderato.

 Insorto il Comune davanti al Consiglio di Stato, l'Ente ha tentato di difendere il suo operato non trovando tuttavia accoglimento i motivi di doglianza formulati avverso l'impugnata sentenza campana, tant'è che l'appello è stato ritenuto infondato.

I Giudici di Palazzo Spada hanno esaminato ogni aspetto relativo alla vicenda de qua e, invocando i precedenti giurisprudenziali confermandone l'attualità, hanno attentamente ricostruito i principi che regolano l'azione di annullamento in autotutela, nella specifica materia dell'edilizia.

Com'è noto, l'Adunanza plenaria n. 8/2017 ha, da un lato, escluso che sussista ex se l'interesse pubblico al ripristino della legalità violata per effetto del rilascio di un titolo edilizio illegittimo, dovendo esso essere espressamente circostanziato, e, dall'altro, ha negato la "teoria dell'inconsumabilità del potere", altrimenti nota come "perennità della potestà amministrativa di annullare in via di autotutela gli atti invalidi", con la conseguenza che il decorso del tempo "onera l'amministrazione del compito di valutare motivatamente se l'annullamento risponda ancora a un effettivo e prevalente interesse pubblico di carattere concreto e attuale".

La stessa Sezione IV del Consiglio di Stato, nel fare applicazione di tali principi, tramite la sentenza n. 1991/2018 ha rilevato che i "presupposti dell'esercizio del potere di annullamento d'ufficio dei titoli edilizi sono costituiti dall'originaria illegittimità del provvedimento, dall'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità violata), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari; l'esercizio del potere di autotutela è dunque espressione di una rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia, l'Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei menzionati presupposti e l'ambito di motivazione esigibile è integrato dall'allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono, che possono indubbiamente essere prevalenti, se spiegati, rispetto a quelli contrapposti dei privati, nonché dall'eventuale negligenza o malafede del privato che ha indotto in errore l'Amministrazione".

Inoltre, a opinione del Collegio giudicante non rileva la difesa del Comune nel punto in cui l'Ente ha invocato l'applicazione della giurisprudenza che legittima il potere di annullamento anche a distanza di molto tempo poiché - secondo il Collegio –l'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio, successivamente valutato come illegittimo, sebbene sia possibile anche ad una distanza temporale considerevole dal titolo medesimo, deve tuttavia essere adeguatamente motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale, tenuto anche conto degli interessi dei privati coinvolti.

A tale proposito ha confermato il Collegio, come già da sentenza n. 4008/2017, che "il potere ex art. 39, D.P.R. n. 380 del 2001, per come esso vive nell'interpretazione giurisprudenziale amministrativa, non può dirsi assimilabile o riconducibile, in un rapporto di species a genus, a quello di cui all'art. 21-nonies L. n. 241 del 1990, il quale è, per espressa previsione di diritto positivo, sottoposto al principio del bilanciamento dei contrapposti interessi.

Ebbene il Consiglio di Stato non ha rinvenuto, nel pur complesso quadro motivazionale che connota il provvedimento impugnato in prime cure, un'adeguata valutazione del sacrificio imposto al privato derivante dal ritiro degli atti autorizzativi, in quanto, come evidenziato di recente dallo stesso Consiglio di Stato tramite la sentenza n. 341/2017, "l'interesse pubblico che legittima e giustifica la rimozione d'ufficio di un atto illegittimo deve consistere nell'esigenza che quest'ultimo cessi di produrre i suoi effetti, siccome confliggenti, in concreto, con la protezione attuale di valori pubblici specifici, all'esito di un giudizio comparativo in cui questi ultimi vengono motivatamente giudicati maggiormente preganti di (e prevalenti su) quello privato alla conservazione dell'utilità prodotta da un atto illegittimo".

 Eppure era ben noto all'Ente territoriale che i proprietari dell'area avevano documentato, già nel corso del procedimento di autotutela, il parallelo giudizio civile instauratosi nei loro confronti su iniziativa dell'ASL per la condanna al pagamento della penale di ben € 1.343.200,00 contrattualmente prevista; inoltre, il Collegio ha evidenziato il comportamento dei proprietari improntato a criteri di lealtà e chiarezza avendo essi prima sollecitato invano il Comune alla definizione dei dettagli della cessione dell'immobile da costruire destinato ad autorimessa e poi rappresentato al Comune di avere interesse al mutamento della destinazione d'uso al fine di dar seguito al rapporto contrattuale instaurato con l'ASL.

Nemmeno sono state trascurate dal Consiglio di Stato le circostanze relative al rilascio, a opera del Comune, del certificato di agibilità dell'immobile nel 2011, nonché il notevole lasso temporale decorso non solo dal rilascio dei titoli edilizi oggetto della determinazione repressiva del Comune (circa 10 anni), circostanza questa che "imponeva una motivazione particolarmente convincente circa l'apprezzamento degli interessi dei destinatari dell'atto, ma anche dall'atto che ha innescato il procedimento di autotutela, essendo il provvedimento finale intervenuto dopo ben tre anni dalla comunicazione del relativo avviso di avvio procedimentale.

Nulla è sfuggito al Consiglio di Stato, tant'è che il Collegio giudicante evidenzia espressamente che, dalla dinamica della complessa vicenda di causa, è dato rilevare che la reazione del Comune si registra soltanto dopo aver avuto cognizione, nel corso dell'anno 2010, stante il coinvolgimento degli uffici comunali da parte degli organi inquirenti, della pendenza di un procedimento penale presso la Procura della Repubblica in ordine al mutamento della destinazione d'uso dell'autorimessa.

Eppure, dagli atti della Conferenza di Servizi, svoltasi nel 2012 dopo l'approvazione con delibera di C.C. dello schema di accordo procedimentale, si evince come il Comune abbia optato per il mantenimento della destinazione d'uso a servizi impegnandosi al rilascio di un permesso in deroga, disponibilità confermata fino ad epoca immediatamente antecedente all'adozione del provvedimento auto-annullatorio.

E' risultata evidente al Collegio la volontà espressa dall'Ente comunale di sanare le irregolarità urbanistiche della struttura al fine di subentrare nel rapporto contrattuale con l'ASL con ciò manifestando, peraltro, l'implicito riconoscimento del notevole interesse pubblico al mantenimento di tale destinazione (a distretto sanitario) della struttura medesima e, al contempo, il disinteresse per la originaria destinazione a parcheggio pubblico;

Infine, il Comune non ha dedicato alcun passaggio motivazionale alla possibilità, non implausibile, di annullare soltanto parzialmente i titoli edilizi rilasciati al fine di contemperare le contrapposte esigenze recando il minore sacrificio possibile alla posizione giuridica del privato, (Consiglio di Stato, n. 816/2016; n. 3524/2017; n. 3780/2017).

Per questi motivi il Consiglio di Stato ha respinto l'appello e ha condannato il Comune alla refusione delle spese di lite liquidate in € 6.000 oltre oneri.

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