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Lui è Giuseppe, cafone e capo di tutti i cafoni, ai quali insegnò, prima ancora della Costituzione, che gli uomini sono uguali e che degni di onore sono quelli che lavorano vivendo del sudore della propria fronte. Giuseppe è ancora un bambino e già si spacca la schiena. Il padrone, col suo frustino, non gli fa paura, lui si nutre di terra e di cultura. Se qui a Cerignola non ci sono scuole per i figli dei cafoni, imparo a scrivere e leggere da solo, ho un quaderno, annoto tutto, il mio più grande amore è la libertà. I contadini costretti a spaccarsi la schiena, i nobili a prendersi il raccolto, non è giusto.
Compagni, ora basta, incrociamo le braccia. Giuseppe, siamo con te, cinque, dieci, ora cento, di più, i padroni costretti a trattare, ad arrendersi. Quel cafone ci parla da pari a pari. Signora marchesa, han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti, volevano avere i salari aumentati, gridavano pensi di essere sfruttati. Mandate la polizia, arrestatelo, uccidetelo. Giuseppe, non ho paura, la libertà è la mia armatura, oppure è l'amore. Carolina, quanto l'ho desiderata, chi l'avrebbe detto, adesso sei mia. Aspettiamo una bimba, che bello sarò pure padre. Giuseppe è un trascinatore, una forza della natura, i nomi dei suoi figli rivelano di che pasta è quel sindacalista della Camera del Lavoro. Baldina da Balda, la coraggiosa e Vindice, che vendica i torti subiti. Le camicie nere, il fascismo, il letame comincia a farsi strada, Giuseppe e i suoi resistono, i contadini e gli operai con loro.
C'è un'altra battaglia da combattere, Giuseppe grida alla Camera lavoro diritti e libertà. Parla dei compagni sfruttati e ammazzati, li piange, è uno di loro, da piccolo riposava nelle cafonerie. Dopo il frustino dei padroni, Il letame dei fascisti, tocca a loro, a quel cafone, ai suoi compagni. Il primo è Giacomo, lo prendono e lo ammazzano, poi Bruno. Giuseppe, tu non puoi farti uccidere, il paese ha bisogno di te, il partito pure anche quando osi parlare a Stalin come un cafone al marchese, chi ti credi di essere. Ora mi sento uno straniero in Francia, anche se Anita è il nuovo nome dell'amore. 1943 sono finalmente libero, due anni, segretario della CGIL, un altro ancora, eccomi alla Costituente con i padri della Patria, io un cafone a scrivere la storia, l'Italia è finalmente una Repubblica fondata sul lavoro. Giuseppe Di Vittorio è un mito, nel 1953 presidente dell'organizzazione sindacale mondiale, mai dimentica di essere un cafone, del popolo ha i sentimenti, la rabbia, le speranze. Cerca l'unità, ma i suoi strappi mandano in tilt botteghe Oscure, come nel '56 dopo i fatti d'Ungheria. Quei carri armati sovietici sugli universitari mi ricordano lo stivale dei baroni e dei fascisti, io condanno, da che parte state compagni, io con il popolo, voi non so. Lo processano, lui resiste tra le lacrime prima i lavoratori, l'unità, altrimenti perderemo tutto. Giuseppe Di Vittorio continuò a guidare la CGIL fino alla sua morte, avvenuta nel 1957 a Lecco, poco dopo un incontro con alcuni delegati sindacali. Colpito da un primo infarto nel 1948 e da un secondo nel 1956, il terzo lo stroncò all'età di 65 anni, un 3 di novembre. Chi lo desiderasse può portargli un fiore rosso al Cimitero del Verano in Roma.
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