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Deve escludersi la configurabilità dello straining ove i pregiudizi derivino da una particolare risposta soggettiva rispetto a decisioni organizzative in cui non siano concretamente ravvisabili profili di colpa datoriale.

"Se non esiste una realtà esterna, oggettiva e comune a tutti, allora essa è soggettiva, frutto della nostra intelligenza emotiva" (da "La psicologia analogica - La percezione della realtà")

Il termine straining, coniato dal Dottor Herald Ege, studioso della psicologia del lavoro ed autore di numerosi scritti in materia, deriva dall'inglese "to strain" e letteralmente può essere tradotto con il significato di "tendere", "mettere sotto pressione". Durante i suoi colloqui con vittime di soprusi e violenze psicologiche sui luoghi di lavoro, il Dr. Ege si rese contoche si trattava di soggetti che erano stati sottoposti a molestie che, a differenza delle condotte mobbizzanti, non erano caratterizzate dalla continuità e dalla ripetitività del comportamento.

La definizione è stata perciò elaborata da Egeper evitare che quei lavoratori sottoposti a trattamenti ingiusti e discriminanti non caratterizzati dalla continuità e dalla ripetitività, rimanessero sprovvisti di tutela.

Lo straining individua dunque una situazione psicologica di stress, ma per essere giuridicamente rilevante, e dunque fondare una pretesa risarcitoria del lavoratore, deve essere certamente superiore al semplice stress occupazionale, ossia alla tensione collegata alla natura stessa del lavoro ed, inoltre, come precisato di recente dalla Suprema Corte di Cassazione nell'ordinanza n. 16580 del 23 maggio scorso, non deve consistere in una mera risposta soggettiva rispetto a decisioni organizzative legittimamente adottate dal datore di lavoro.

Il caso.

Una docente in servizio presso unistituto comprensivo, ricorreva contro il Ministero della Pubblica istruzionelamentando di essere stata destinataria di una serie di condotte vessatorie che le avevano provocato una sindrome depressiva.

Le condotte sottoposte allo scrutinio del giudice di merito erano di vario genere: mancato conferimento di incarichi, omessa convocazione a riunioni, richiesta di indicazione di norme rispetto a domande di permessi, erronee informative sulla soprannumerarietà, 'assegnazione di incarichi per elaborazioni poi non utilizzate; pubblicizzazione di denuncia su irregolarità rilevate dalla ricorrente nelle elezioni delle rappresentanze sindacali; consegna in classe delle contestazioni disciplinari, mancata convocazione a riunioni, l'essere emersa in sede di contrattazione di Istituto la questione sui rimborsi alla ricorrente per il Corso sulla sicurezza.

Nel corso del giudizio di merito, tuttavia, parte datoriale aveva saputo fornire una valida giustificazione per ciascuna di esse,cosicché sia il giudice del primo grado che quello dell'appello avevano escluso che tali condotte fossero sintomatiche di una strategia vessatoria ai danni della lavoratrice.

La decisione della Corte.

Sul piano dogmatico, la Suprema Corte ha delineato le differenze tra "straining" e "mobbing.

In particolare, il mobbing lavorativo è configurabile ove ricorra l'elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell'intendimento persecutorio nei confronti della vittima e ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente inquadrabile nell'ambito civilistico, ove si consideri che la determinazione intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro o di chi per lui è in re ipsa ragione di violazione dell'art. 2087 c.c..

Lo straining, invece, si concretizza quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie o esse siano limitate nel numero, ma anche nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori, anche qui, al di là delle denominazioni, lungo la falsariga della responsabilità dolosa o anche colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l'esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute ancora secondo il paradigma di cui all'art. 2087 c.c..

Ancora, ricorda il giudice di legittimità, è comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento, imputabile anche solo per colpa, che si ponga in nesso causale con un danno alla salute (ad es. applicazione di plurime sanzioni illegittime, comportamenti che in concreto determinino svilimento professionale e ciò secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale.

Passando poi al caso concreto, la Suprema Corte ha ritenuto che al di là della valutazione eziologica, di tenore più spiccatamente medico legale, ciò che andava valutato, quanto alla sindrome depressiva lamentata dalla ricorrente, era il ricorrere o meno di una condizione ambientale stressogena giuridicamente rilevante, tale da comportare il sorgere di una responsabilità risarcitoria secondo le fattispecie racchiuse nella denominazione di straining, nella variante colposa di esso, riportabile comunque alla fattispecie di cui all'art. 2087 c.c.

Dunque, poiché, nel complesso, le condotte datoriali si erano dimostrate sorrette di ragionevoli motivazioni, sebbene in concreto la convivenza lavorativa avesse causato alla ricorrente una sindrome depressiva, ciò nondimeno tale circostanza avrebbe potuto far nascere una pretesa risarcitoria delle lavoratrice nei confronti del datore di lavoro.

In presenza di condotte datoriali sorrette da plausibili motivazioni e non connotate da illegittimità, deve in sostanza escludersi anche la ricorrenza di una condizione ambientale stressogena e conseguentemente l'eventuale insorgenza di patologie di natura psichica in capo al lavoratore devono ascriversi ad una particolare risposta soggettiva del lavoratore medesimo.

L'ordinanza in commento, dunque, contribuisce a delineare con maggiore chiarezza i confini di una fonte di responsabilità di assai difficile definizione, sicché si può a questo punto fondatamente affermare che si resta al di fuori della responsabilità per "straining" sia quando i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa (come affermato in Cass. 29 gennaio 2013, n. 3028), sia quando tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili (come ribadito da Cass., S.U., 22 febbraio 2010, n. 4063 nonché da Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972) sia, infine, ma solo per il momento, ove i pregiudizi derivino da una particolare risposta soggettiva rispetto a decisioni organizzative in cui non siano concretamente ravvisabili profili di colpa datoriale.

 

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