Sull´argomento si è pronunciata la Suprema Corte di Cassazione con ordinanza n. 21686 del 26 ottobre 2016.
La questione
Nella fattispecie culminata nella sentenza ora in commento, la Corte di appello di Venezia riformava la sentenza del Tribunale di Padova e, in accoglimento del gravame proposto dal Ministero della Salute, rigettava la domanda della persona lesa, diretta al riconoscimento dell´indennizzo ex art. 1 della legge n. 210 del 1992.
Tale giudizio scaturiva dall´accertamento giudiziale, formatosi in esito ad una consulenza medico legale, che il ricorrente era affetto da epatopatia cronica post trasfusionale, ma che tale patologia non aveva causato lesioni permanenti che incidessero sulla sua capacità di produzione del reddito.
Da qui il ricorso del soccombente ai Supremi Giudici.
La decisione della Cassazione
La Corte ha cassato la sentenza impugnata ed accolto il ricorso.
I giudici hanno preliminarmente osservato come, secondo l´insegnamento costante e consolidato delle Sezioni Unite della Cassazione, la "L. 25 febbraio 1992, n. 210, art. 1, comma 3, letto unitamente al successivo art. 4. comma 4, deve interpretarsi nel senso che prevede un indennizzo in favore di coloro che presentino danni irreversibili da epatiti post-trasfusionali sempre che tali danni possano inquadrarsi, pur alla stregua di un mero canone di equivalenza, e non già secondo un criterio di rigida corrispondenza tabellare, in una delle infermità classificate in una delle otto categorie di cui alla tabella B annessa al testo unico approvato con D.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915, come sostituita dalla tabella A allegata al D.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834, rientrando nella discrezionalità del legislatore, compatibile con il principio di solidarietà (art. 2 Cost.) e con il diritto a misure di assistenza sociale (art. 38 Cosi.), la previsione di una soglia minima di indennizzabilità del danno permanente alla salute nel caso di trattamenti sanitari non prescritti dalla legge o da provvedimenti dell´autorità sanitaria".
La Corte territoriale, secondo i Giudici di Piazza Cavour, non aveva fatto corretta applicazione di tale principio.
Il giudice di appello aveva, invero, ritenuto necessario che, per il riconoscimento dell´indennizzo, fossero accertate ricadute pregiudizievoli in termini di capacità lavorativa, sottolineando che non era stato neppure allegato dall´assistito che la lesione accertata avesse inciso negativamente sua capacità di produzione del reddito.
Ma la Corte di merito, ha rilevato la Sezione, non aveva in nessun modo spiegato le ragioni del proprio dissenso dalla valutazione espressa dal consulente di primo grado che, ritenendo la patologia epatica progredita "sul piano clinico-funzionale, ematochimico, anatomopatologico", l´aveva nei fatti ascritta alla categoria ottava della tabella A allegata al d.p.r. n. 834 del 1981, e quindi tra quelle determinanti ai fini della concessione del beneficio.
L´incidenza della lesione permanente dell´integrità psicofisica, conseguente alla contrazione dell´epatite HCV, sulla capacità di produzione reddituale costituisce quindi, ha affermato la Cassazione, un elemento di valutazione per stabilire se la malattia si trova o meno in uno stato di quiescenza, non cagionando una infermità che, seppur in via di equivalenza, è riconducibile ad una delle patologie menzionate nella Tabella A.
Insomma, dal sistema deve desumersi, ha affermato la Sezione, che è la quiescenza della malattia, vale a dire l´assenza di sintomi e pregiudizi funzionali attuali, ad escludere il diritto all´indennizzo.
Mancando l´accertamento in questione, la Corte ha accolto il ricorso, cassato la sentenza impugnata e rinviato alla Corte di appello di Venezia in diversa composizione.
Sentenza allegata
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