Di Redazione su Giovedì, 01 Marzo 2018
Categoria: Giurisprudenza Cassazione Civile

Cassazione: un praticante ed uno studio in più possono "costare" l´Irap al professionista

Una ordinanza che potrebbe essere letta come un precedente fondativo di un meditato orientamento della Corte di legittimità ma che, in modo - fortunatamente - meno radicale va presa con le pinze, quella, la n. 1723 depositata il 23 gennaio 2018 dalla Quinta Sezione tributaria della Suprema Corte di Cassazione, che ha affermato, in sintesi estrema, che l´assunzione di uno o più praticanti e l´utilizzazione di una pluralità di immobili, tutti adibiti a studi professionali, nel territorio di diversi Comuni, legittimamente possono rappresentare per le Entrate utili presupposti ai fini della applicazione dell´Irap ai titolari.

La Suprema Corte è stata investita della questione dopo che la Commissione tributaria regionale della Puglia, con sentenza del 23
maggio 2012, aveva rigettato l´appello proposto dalla Agenzia delle entrate contro la
decisione della Commissione tributaria provinciale di Lecce che aveva accolto il ricorso di
richiesta di rimborso Irap per gli anni dal 1999 al 2001, posto che il contribuente
era privo, nello svolgimento della sua attività di consulente finanziario, di
qualsivoglia autonoma organizzazione.

Avverso tale decisione l´Agenzia delle entrate aveva proposto ricorso articolando tre motivi.
Con il primo motivo lamentava la violazione di legge perchè la
Commissione aveva operato un´inammissibile scissione fra il contributo personale
del contribuente alla formazione del reddito e l´apporto della struttura di cui si era avvalso. Un apporto che, per esser rilevante di fini della imposizione Irap, è sufficiente
che consenta un concreto incremento della prestazione intellettuale
fornita alla clientela dal contribuente.
Con il secondo motivo aveva censurato il difetto di motivazione per avere omesso la Commissione regionale tributaria di spiegare come il contributo offerto dal figlio del professionista, pur assunto come praticante, non avesse determinato alcun incremento della prestazione del contribuente (citava Cass. 21563/10).
Con il terzo, deduceva la mancata pronuncia sulla decadenza del
rimborso, eccepita nel gravame di merito.
La Corte, come premesso, ha accolto il ricorso, richiamando innanzitutto la sentenza numero 9451 del 10 maggio 2016, con la quale le Sezioni Unite avevano chiarito che in tema di imposta regionale sulle attività
produttive, il presupposto dell´"autonoma organizzazione" richiesto dall´art. 2 del
d.lgs. n. 446 del 1997 "non ricorre quando il contribuente responsabile
dell´organizzazione impieghi beni strumentali non eccedenti il minimo
indispensabile all´esercizio dell´attività e si avvalga di lavoro altrui non eccedente
l´impiego di un dipendente con mansioni esecutive".

Secondo i supremi giudici, in applicazione di tale principio di diritto, la Commissione regionale non poteva limitarsi ad affermare che l´apporto di un praticante non avesse di per sé potuto costituire un concreto incremento della prestazione intellettuale,
ma "avrebbe dovuto vagliare se il professionista che se ne era avvalso avesse,
con tale apporto, certamente dì natura intellettuale e proprio della professione da questi esercitata, accresciuto il valore della consulenza fornita ai clienti dello studio, considerando anche che si era determinato a corrispondere a tale collaboratore un emolumento".
Da qui l´accoglimento dei primi due motivi, con conseguente necessità di cassazione della sentenza e rinvio alla Commissione regionale per un nuovo esame sul punto.
Una pronuncia, come può agevolmente vedersi, estremamente sintetica, a tal punto da apparire sostanzialmente declinativa della volontà della Suprema Corte di affrontare in termini più precisi una questione che, per sua natura, implica valutazioni di merito non compatibili con il sindacato della Corte, che non possono che essere devoluti alle commissioni tributarie.