Di Redazione su Mercoledì, 27 Settembre 2017
Categoria: Attualità

Volontari: le nostre storie tra 118 ed elicotteri. Quando la vita confina con la morte

Cristina Corbetta (nella foto) lavora alla comunicazione dell´Areu - Milano.
È una volontaria e racconta la sua ed altre storie in questa lettera bellissima.
"Mi chiamo Cristina e lavoro al 118, il soccorso sanitario. Non sono un medico, un´infermiera. Mi occupo della comunicazione di un´azienda regionale della Lombardia che si chiama AREU (Azienda Regionale Emergenza Urgenza) e che coordina le Sale operative 118 lombarde".
"Questo lavoro mi offre un´opportunità unica: conoscere cosa vuol dire, per uomini e donne, avere come lavoro quello di salvare una vita. Qualche tempo fa, tra i tanti profughi che arrivano tutti i giorni in Stazione Centrale a Milano, c´era Liala, una giovanissima donna straniera, al nono mese di gravidanza. La sua bambina è nata lì, sul mezzanino della Metropolitana, con la sua mamma accovacciata in un angolo. I primi a tenerla tra le braccia gli infermieri e i volontari del 118. Il mondo dell´emergenza non è solo quello che si fa, ma quello che ti resta dentro dopo che l´hai fatto".
"Prediamo Laura, che fa l´infermiera sui mezzi di soccorso ed è mamma di Luca, che ha 19 anni e la sera, come tutti i ragazzi, esce, e torna tardi. Laura fa il turno di notte, e si trova a soccorrere un ragazzo con l´auto sfasciata, fuori dalla discoteca (anche Luca ci va, in discoteca). Quel ragazzo aveva un po´ bevuto (come Luca, qualche volta). E dopo aver soccorso questo ragazzo, averlo intubato e ventilato, averlo portato in ospedale e poi chissà, non vuoi neanche sapere se ce l´ha fatta; come si fa a dormire quando Luca è fuori?".
"Oppure prendi Massimo, che lavora sull´elicottero del soccorso. Ci è salito centinaia di volte, si è calato giù con il verricello, a prendere qualcuno per portarlo al più presto in ospedale. Ma quella volta l´elicottero è caduto e sono morti tutti, anche i due amici e compagni di tante missioni; e Massimo era in Centrale, solo per caso non faceva parte dell´equipe. E prendi Manuela: è toccato a lei andare sul soccorso di un padre che ha ucciso le sue tre bambine. Non è stato neanche un soccorso, perché le bimbe erano morte. Ma perché era in turno proprio Manuela, lei che di bambini ne ha tre e va in ansia se hanno la febbre? Perché Manuela, che ha pianto per giorni, e neppure la psicologa è riuscita ad aiutarla?".
"Volontari. Laura, Massimo, Manuela e tutti gli altri; che quando glielo chiedo non sanno spiegare perché proprio questo lavoro, perché non hanno preferito la più tranquilla corsia di ospedale. Ma stando vicino a loro io la risposta l´ho trovata, ed è simile alla domanda. Perché questo è "il" lavoro; perché andare tanto vicino alla morte ti fa avvicinare alla vita. E poi sì, ci si abitua anche un po´, altrimenti non si potrebbe andare avanti. E ci sono le belle notizie: come quella volta che un ragazzino di 15 anni è andato in arresto cardiaco sul campo di calcio e il fisioterapista l´ha rianimato, con la guida dell´infermiere 118 al telefono; e le centinaia di storie lontane dalla ribalta della cronaca, raccontate dalle lettere di ringraziamento della gente".


Fonte: Invece Concita, Repubblica.it 24 sept 2017