Con la sentenza n. 35188 dello scorso 1 agosto, la III sezione penale della Corte di Cassazione, ha confermato la condanna per il reato di violenza sessuale inflitto ad un uomo che aveva afferrato e strizzato il seno di una donna, rigettando le difese dell'aggressore secondo cui quel gesto, repentino e dettato da uno scatto d'ira, non era animato da alcun fine di concupiscenza o altro istinto sessuale.
Si è difatti specificato che qualora la condotta sia intenzionalmente volta a invadere e compromettere la sfera di libertà sessuale della vittima, rimane del tutto irrilevante il fine ulteriore perseguito dall'agente (di violenza, umiliazione, scherno o altro).
Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dall'esercizio dell'azione penale nei confronti di un uomo, accusato del reato di cui all'art. 609 bis comma 3 c.p., per avere costretto una donna a subire, con violenza, atti sessuali, consistiti nell'afferrarle e strizzarle con forza il seno.
In particolare, l'imputato aveva svolto attività di intermediazione immobiliare per consentire alla persona offesa l'acquisto di un immobile; conclusosi l'affare, i contatti lavorativi seguivano anche nei lavori di ristrutturazione dell'appartamento ma, in tale fase, i rapporti si deterioravano e, raggiunto uno stato di totale esasperazione, l'uomo compiva il gesto contestatogli.
Il Tribunale di Lucca condannava l'imputato a un anno e due mesi di reclusione, oltre che al risarcimento del danno in favore della parte civile, liquidato in Euro 1.000,00; in particolare, secondo il giudicante, la condotta di reato era da ritenersi integrata, stante l'evidente natura sessuale dell'atto nonché della modalità repentina con le quali il gesto era stato compiuto, tale da impedire ogni valida reazione.
La Corte di Appello di Firenze confermava la pena inflitta.
Ricorrendo in Cassazione, la difesa dell'uomo deduceva violazione e l'errata applicazione dell'art. 609 bis c.p.. sostenendo come, nel caso di specie, il reato contestato non fosse stato integrato.
Più nel dettaglio, il ricorrente contestava che la propria condotta possa essere qualificata come atto sessuale, sia perché – in quanto originata da uno stato d'ira – non era animata da alcun fine di concupiscenza o altro istinto sessuale, sia perché non connotata dalla volontà di invadere la sfera sessuale della vittima; inoltre, la difesa dell'imputato evidenziava come il gesto, lungi dal consistere in un palpeggiamento insistito e intenzionale, caratterizzato da un interesse di natura sessuale, era stato del tutto repentino, caratterizzato da sola violenza fisica.
La Cassazione non condivide le difese mosse dal ricorrente.
La Corte premette che l'elemento soggettivo del reato di violenza sessuale è integrato dal dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà sessuale della persona offesa non consenziente: a tal fine, ciò che rileva non è la finalità soggettiva dell'autore del reato (cosicché non è necessario che detto atto sia diretto al soddisfacimento dei desideri dell'agente né rilevano possibili fini ulteriori dal medesimo perseguiti), bensì la volontarietà dell'offesa al bene dell'integrità sessuale della persona offesa.
Ne deriva che, qualora la condotta sia intenzionalmente volta a invadere e compromettere la sfera di libertà sessuale della vittima, rimane del tutto irrilevante il fine ulteriore perseguito dall'agente (di violenza, umiliazione, scherno o altro); tale indagine va condotta tenendo conto delle eventuali peculiarità del contesto nell'ambito del quale l'atto sia stato realizzato, qualora le stesse siano tali da escludere la volontà di invadere e compromettere la sfera sessuale della vittima.
Con specifico riferimento al caso di specie, la Corte di merito ha correttamente rilevato che la volontaria e violenta invasione da parte dell'imputato della sfera sessuale della vittima, realizzata mediante il repentino strizzamento di una parte del corpo (il seno) certamente sensibile sul piano sessuale, avesse senza dubbio comportato la compromissione della sfera sessuale della donna.
Alla luce dei principi di diritto sopra richiamati, gli Ermellini specificano come non esclude la configurabilità del reato la circostanza per cui la condotta non avesse il fine di soddisfare istinti sessuali dell'imputato o la sua concupiscenza, bensì di offendere la vittima, nell'ambito di un acceso confronto tra essa e l'imputato.
In conclusione la Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.