Con l'ordinanza n. 18803 dello scorso 10 settembre, la I sezione civile della Corte di Cassazione – chiamata a vagliare l'istanza di una donna vittima di pesanti episodi di violenza domestica nella propria casa in Albania – ha cassato il decreto del Tribunale di Bari che, sulla base di considerazioni astratte, aveva negato il riconoscimento della protezione internazionale, inquadrando le violenze contestate alla stregua di un fatto meramente privato.
Si è difatti specificato che "La violenza di genere, al pari di quella contro l'infanzia, non può essere ricondotta alla categoria del "fatto meramente privato", poiché essa costituisce una delle fattispecie espressamente previste dall'art. 7, secondo comma, del D.Lgs. n.251 del 2007 ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, sia con riferimento agli "atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale" (cfr. lett. a), che con riguardo, in generale, agli "atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l'infanzia" (cfr. lett. f)".
Nel caso sottoposto all'attenzione della Corte una donna, cittadina albanese, chiedeva il riconoscimento della protezione internazionale alla Commissione territoriale di Bari.
A tal fine deduceva di esser stata segregata in casa in Albania dal proprio compagno, rivelatosi violento dopo l'inizio della convivenza, e di aver subito insulti, violenze e minacce, rispetto alle quali non aveva ricevuto tutela dalla Polizia nonostante la denuncia, fino alla sua fuga verso l'Italia.
In particolare, a sostegno della propria richiesta, la donna descriveva nel dettaglio taluni elementi certi che evidenziavano un contesto grave di violenza domestica, quali: le lesioni gravi, documentate dal referto ospedaliero; il tentato incendio della casa della zia; le reiterazione delle fughe della stessa donna, una prima volta in patria, presso la zia, ed una seconda in Italia, presso la sorella; la denigrazione posta in essere dal fidanzato, responsabile della condotta violenta.
Avverso il provvedimento di diniego emesso dalla Commissione territoriale di Bari, la donna proponeva ricorso al Tribunale di Bari.
Il Tribunale, rigettando il ricorso, inquadrava la vicenda narrata dalla signora alla stregua di un mero conflitto di carattere privatistico, al più sfociato in minacce o in fatti di violenza privata del tutto estranei al regime della protezione internazionale, non essendovi alcuna ragione per escludere che le autorità competenti in patria fossero in grado di assicurare adeguata tutela.
Secondo il Giudice, inoltre, era inverosimile che la Polizia fosse rimasta inerte e, d'altra parte, attribuiva rilievo decisivo alla circostanza per cui la donna aveva scelto di non denunciare l'uomo dopo le gravi percosse subite, da cui era scaturito financo un ricovero ospedaliero.
La donna proponeva ricorso per Cassazione deducendo violazione e falsa applicazione della Convenzione di Ginevra, della Direttiva 2004/83/CE e degli artt. 2, 7, 8 e 14 del d.lgs. n.251 del 2007, per aver il decreto impugnato erroneamente denegato il riconoscimento della protezione internazionale, nelle due forme dello status e della tutela sussidiaria, senza apprezzare correttamente la società albanese, con particolare riferimento alla condizione delle donne.
La Cassazione condivide le tesi difensive della donna.
La Corte evidenzia che la motivazione complessivamente resa dal Tribunale di Bari, invece di esaminare, come avrebbe dovuto fare, i termini concreti della vicenda riferita dalla cittadina albanese per verificarne la fondatezza e la veridicità, ha di fatto screditato a priori la vicenda stessa senza approfondirne adeguatamente gli elementi di fatto.
La Cassazione rileva come la vittima aveva riferito un contesto di violenza domestica, che meritava di essere considerato grave: in un simile quadro il comportamento della polizia doveva essere apprezzato non in termini astratti e teorici, ma con riferimento al caso specifico, verificando se effettivamente la ricorrente avesse sporto denuncia per l'aggressione subita e quale fosse stata la risposta delle autorità albanesi, allo scopo di verificare se vi fosse stata inerzia di fronte alla condotta denigratoria del responsabile della violenza.
Di contro il decreto impugnato ha inferito per la non verosimiglianza del racconto con considerazioni astratte che non presentavano alcun aggancio alla storia in concreto narrata dalla vittima.
Gli Ermellini, inoltre, valorizzano la sussistenza di elementi certi nel racconto della donna, indicativi di un contesto grave di violenza domestica: a tal riguardo, la sentenza in commento precisa che la violenza di genere non può mai essere ridotta a fatto meramente privato, come ha fatto il giudice di merito, posto che essa è una delle fattispecie espressamente prevista dall'art. 7, secondo comma, del d.lgs. n.251 del 2007 ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato; la lettera a) del citato decreto, infatti, contempla gli "atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale", mentre la lettera f) si riferisce invece agli "atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l'infanzia".
In virtù di tanto, la Cassazione accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia la causa al Tribunale di Bari, in differente composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.