Con la recente sentenza n. 3998 dello scorso 28 gennaio, la V sezione penale della Corte di Cassazione ha condannato un uomo che, dopo esser stato lasciato dalla compagna, si introduceva con forza nell'abitazione della donna ove avevano convissuto insieme, statuendo che integra il reato di violazione di domicilio la condotta dell'ex convivente more uxorio che si introduce nell'abitazione della sua ex compagna contro la sua chiara ed espressa volontà, essendo quest'ultima, a seguito della cessazione della convivenza, l'unica avente diritto all'abitazione e l'unica titolare del diritto di esclusione di terzi, anche nei confronti del suo ex convivente.
Il caso sottoposto all'attenzione della Corte prende avvio dall'esercizio dell'azione penale nei confronti di un uomo, accusato per il reato di violazione di domicilio aggravato per essersi introdotto, dopo averne divelto la porta d'ingresso, nell'abitazione della compagna, dove si intratteneva contro la espressa volontà della stessa.
In particolare, nel corso del giudizio di merito era stato accertato che, la persona offesa, dopo l'ennesimo litigio, decideva di interrompere la relazione sentimentale con l'imputato il quale abbandonava la casa; qualche ora dopo, ripresentarsi al cancello, suonava insistentemente al citofono per farsi aprire. La donna, avvicinatasi alla porta, senza aprirla, lo pregava di andare via, ma questi proseguiva nella sua azione violenta fino a scardinare il portoncino di ingresso ed entrava in casa.
Per tali fatti, sia il Tribunale di Brescia che la Corte di Appello di Brescia lo avevano condannato per il reato di cui all'art. 614 c.p., sul presupposto che l'uomo non aveva titolo ad entrare in casa: non era emersa, nel corso dell'istruttoria, la sussistenza di una stabile convivenza more uxorio tra i due soggetti, ma solo tracce di una relazione sentimentale; la donna, inoltre, aveva già comunicato all'imputato di non voler proseguire la relazione, il che comportava che qualsiasi presunto diritto legato all'asserita convivenza doveva ritenersi cessato nel momento in cui quest'ultima aveva manifestato la volontà di porre fine alla stessa.
L'uomo proponeva ricorso per Cassazione deducendo la violazione di legge penale ed il vizio di motivazione, per erronea applicazione del disposto di cui all'art. 614 c.p..
Il ricorrente evidenziava come erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto inquadrabile, nella fattispecie concreta, gli estremi del delitto di violazione di domicilio: secondo la sua difesa, infatti, proprio in virtù dello stabile rapporto di convivenza esistente da tempo tra i due, sussisteva il suo diritto a entrare e a intrattenersi nella casa comune, in ragione del potere di fatto sulla cosa proveniente dalla convivenza more uxorio.
In secondo luogo si difendeva evidenziando che il suo intento non era quello di aggredire fisicamente la sua compagna, bensì di ritirare i propri effetti personali.
La Cassazione non condivide le tesi difensive dell'imputato.
In relazione al primo motivo di ricorso, la Corte ritiene che lo stesso sia infondato.
In punto di diritto gli Ermellini ricordano come la convivenza more uxorio, determina un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare; in tale contesto lo jus excludendi alios spetta a tutti i conviventi (membri della famiglia e ospiti), in quanto tutti i componenti della famiglia ( ivi compreso il convivente more uxorio), per il solo fatto della convivenza, sono titolari del diritto all'inviolabilità del domicilio.
L'inviolabilità del domicilio è il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, la cui previsione mira a proteggere la libertà della persona colta nella sua abitazione, intesa quale luogo in cui si compie tutto ciò che caratterizza la vita domestica privata, permettendo al soggetto titolare del diritto di abitazione di vietare a terzi l'ingresso o la permanenza in uno dei luoghi presi in considerazione dal citato art. 614 c.p. comma 1.
Il tema posto all'attenzione della Corte è, quindi, se la persona offesa possa considerarsi legittima titolare dello jus escludendi nei confronti dell'imputato, in relazione al luogo in cui quest'ultimo aveva convissuto con lei fino a poche ore prima.
Il legittimo esercizio dello jus excludendi, proprio in ragione della definizione del domicilio – quale luogo di privata dimora, dove si esplica liberamente la personalità del singolo – presuppone necessariamente l'esistenza di una reale situazione di fatto che colleghi in maniera sufficientemente stabile il soggetto allo spazio fisico in cui si esplica la sua personalità.
Secondo la Cassazione, nel caso sottoposto alla sua attenzione, tale situazione di fatto è venuta a mancare: l'allontanamento dell'uomo dal luogo di convivenza, senza mantenere la disponibilità delle chiavi di accesso, e la decisione della donna di mettere fine alla loro relazione, hanno infatti decretato oggettivamente la fine della convivenza e, con essa, la titolarità dello jus proibendi in capo all'imputato poiché, a quel punto, l'unica avente diritto all'abitazione stessa e l'unica titolare del diritto di esclusione di terzi, anche nei confronti del suo ex convivente, era la stessa persona offesa.
In relazione al secondo motivo di ricorso, vertente sul proposito che ha animato il ricorrente quando si introdusse nell'abitazione della persona offesa, la Corte ritiene che lo stesso sia inammissibile, perché tende a una rivalutazione delle risultanze probatorie non consentita nel giudizio di legittimità.
In virtù di tanto, la Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.