Di Carmela Patrizia Spadaro su Martedì, 16 Aprile 2024
Categoria: Giurisprudenza Cassazione Civile

Una tenda ritraibile va rimossa perché assieme alla struttura portante è considerata costruzione?

Riferimenti normativi: Artt.907-1067 c.c.

Focus: Il condòmino che installa una tenda di stoffa ritraibile che fa parte di una struttura fissa può essere condannato a rimuoverla se la stessa viola le distanze e preclude il diritto di veduta di altri condòmini. Si è pronunciata in tal senso la Corte di Appello con sentenza confermata dalla Cassazione con Ordinanza n.239/2024 del 21/03/2024.

Principi generali: Quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino il proprietario, ai sensi dell'art.907 c.c., non può fabbricare a distanza minore di tre metri. Altresì, ai sensi dell'art.1067 c.c., il proprietario del fondo dominante non può fare innovazioni che rendano più gravosa la condizione del fondo servente.

Il caso: Una società era stata citata in giudizio e condannata dal Tribunale a rimuovere una tenda di stoffa ritraibile perché rientrante tra le opere ritenute illecite, in quanto le stesse erano state realizzate violando le distanze ex art. 907 c.c. e lesive dell'art.1067 c.c. perché idonee a precludere l'esercizio della servitù di luce esistente a vantaggio di altri. La Corte d'Appello, dinanzi alla quale la società aveva impugnato la sentenza, ha confermato la sentenza di primo grado. 

Di conseguenza, la ricorrente ha impugnato la sentenza di secondo grado dinanzi alla Corte di Cassazione. La ricorrente ha eccepito, come primo motivo, che la Corte di Appello, in violazione dell'art. 907 c.c., aveva erroneamente considerato una tenda di stoffa ritraibile come costruzione e, in quanto tale, soggetta all'obbligo del rispetto della normativa sulle distanze perché lesiva del diritto dei controricorrenti di guardare e sporgersi sulla proprietà altrui. Con il secondo motivo, la stessa ha eccepito che la Corte d'Appello aveva assimilato l'opera contestata ad una costruzione perchè realizzata al di sopra delle mura non oggetto della domanda di demolizione proposta da parte attrice. La Corte Suprema ha osservato che la decisione della Corte d'Appello, che ha confermato la decisione dei primi giudici, aveva evidenziato che, nel caso di specie, la società non aveva realizzato soltanto una tenda scorrevole ma una struttura fissa. Tale struttura ancorata al muro perimetrale dell'edificio, che accoglieva la tenda quando era chiusa, secondo la consistenza accertata dal C.T.U., presentava le dimensioni di un parallelepipedo 'scatolato'. In pratica essa era assimilabile ad una costruzione che non rispettava la distanza minima di tre metri prevista dall'art.907, comma 3, c.c., e costituiva nuovi volumi generati dalle strutture fisse, unitamente alla tenda scorrevole, che poste in prossimità della soglia dei balconi poteva minarne anche la sicurezza. 

La Corte d'Appello, quindi, aveva operato correttamente nel valutare i fatti e le prove condividendo le conclusioni del C.T.U. ed aveva dato conto del percorso logico seguito per pervenire alla decisione, con particolare riferimento alla natura ed alle caratteristiche del manufatto oggetto di causa, alle sue dimensioni, al suo posizionamento a distanza inferiore a quella legale. Ciò posto, la Suprema Corte ha richiamato il principio giurisprudenziale secondo cui "non può essere sottoposta al giudice di legittimità la revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito al fine di ottenere una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass.,sent.24148/2013)". Infatti, rientra nell'apprezzamento discrezionale del giudice di merito valutare le prove ritenute più idonee a sorreggere la motivazione della sua decisione per stabilire se – nell'ambito dei rapporti di vicinato – le opere realizzate dai condòmini possano equipararsi a costruzioni e se, impedendo o limitando le vedute in appiombo esercitate dal vicino, debbano rispettare la distanza di tre metri prevista dall'art. 907 c.c. (Cass.Ordinanza n. 26263/2018). In considerazione di quanto sopra, poiché la motivazione della sentenza impugnata non era viziata da illogicità ed era manifesto l'iter logico-argomentativo seguito dal giudice di merito per pervenire alla sua decisione, la Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, condannando la parte ricorrente al pagamento delle spese di lite. 

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