Di Redazione su Sabato, 11 Maggio 2019
Categoria: Mi chiamo Alessandro Gordiani e faccio l'avvocato (Michele Navarra) - Diritto e Letteratura

Nella vita siamo costretti a fare delle scelte che ci allontanano da ciò che avremmo voluto o potuto essere

Erano tante le incognite da affrontare, troppe le variabili impossibili da controllare, come purtroppo era sempre avvenuto nel corso della mia carriera professionale.

Per questo motivo molto spesso mi sento a disagio e alle volte provo la tentazione di lasciar perdere tutto. Abbandonare la toga per fare qualcosa di diverso. Cosa non lo so.

Talvolta non riesco a capire se la vita che sto vivendo è proprio quella che avrei voluto vivere. A esser sincero non credo. O almeno non lo credo fino in fondo.

In più d'una occasione mi sono ritrovato a condividere un antico detto danese, secondo cui troppe volte si finisce per vivere accanto a se stessi. "Vive accanto a se stesso" dicono nel paese di Amleto, quando vogliono indicare una persona che non è contenta di ciò che fa, dei suoi interessi, di chi lo circonda, delle strade intraprese.

Magari nella vita siamo costretti a fare delle scelte – per necessità, per convenzione, per viltà, per convenienza – che ci allontanano da ciò che avremmo voluto, e forse potuto, essere.

Può capitare di sprecare il proprio talento, facendo una cosa che non ci soddisfa fino in fondo, che non ci consente di provare quella tipica sensazione di appagante pienezza interiore che pervade coloro che riescono a stare bene con se stessi.

In quei casi, il nostro vero io, che continua a vivere accanto a noi, ci guarda e ci rimprovera di averlo tradito, magari per quattro soldi o per inseguire la chimera di un'esistenza tranquilla, "sicura", al riparo da ogni possibile scossone emotivo.

Ma sarà vero quello che dicono i danesi? Oppure il tarlo del dubbio, il cruccio d'aver sbagliato le proprie scelte è tipico dell'essere umano, un vero e proprio marchio di fabbrica che siamo costretti a portarci dietro per tutta la vita, impresso in modo indelebile?

Non so che dire, se non che adesso ho paura.

Paura di sbagliare.

 Paura d'aver sbagliato.

Paura che, a causa dei miei errori, qualcun altro possa pagare conseguenze devastanti.

Mancavano ancora una ventina di minuti all'inizio dell'udienza e ancora non si vedeva nessuno. Davanti a quell'aula sbarrata non mi sentivo forte, non mi sentivo all'altezza della situazione.

Avrei dovuto buttarmi tutto alle spalle.

Una questione di principio.

 L'ennesima questione di principio che, da sempre, aveva scandito i momenti più importanti della mia vita, personale e professionale.

Mio padre mi ripeteva spesso: "Forti non si sembra: o si è o non si è." Avrei tanto bisogno di lui in questo momento. Il male l'ha portato via da me troppo presto. "Ho ancora sete dei suoi occhi, della sua allegria" – recita una delle canzoni più belle che abbia mai ascoltato – "... e meno male che sogno, posso incontrarti così, perché è di te che ho più bisogno...".

Certe volte mi sento ancora un bambino spaventato, bisognoso d'esser preso per mano e condotto in un luogo sicuro, al riparo dal dolore, dalla sofferenza e dalla paura.

Un luogo dove qualcuno mi dica che va tutto bene. Che ce la farò.

Sul lavoro, a volte, devo fingere una forza che in realtà non ho, una sicurezza che in realtà non provo.

Sono costretto a sembrare forte pur non essendolo affatto, ma ne sono consapevole e questo mi aiuta.

Faccio fatica però. Tanta fatica.

E sempre più spesso ho voglia di potermi finalmente riposare.

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