L'annosa querelle sul danno non patrimoniale a seguito di morte di un congiunto tocca la Suprema Corte che fa il punto sulla situazione operando degli opportuni distinguo. Con l'ordinanza n. 18056/19 gli Ermellini sanciscono che se dopo il ferimento non vi è la morte istantanea della vittima si trasmettono agli eredi due tipologie di danno: un danno biologico, indipendente dallo stato di coscienza, qualora la sopravvivenza duri più di ventiquattro ore; un danno non patrimoniale da formido mortis ossia quello derivante dalla sofferenza per la consapevolezza della morte imminente. La questione originava da un incidente stradale che aveva visto coinvolti un'autovettura ed un autobus: nell'incidente avevano perso la vita la moglie e i due figli di un uomo trasportato rimasto ferito. La causa era stata introitata dal ferito nonché da due prossimi congiunti della di lui moglie; le controparti erano le assicurazioni dei veicoli coinvolti e la società proprietaria dell'autobus. Il processo di primo grado si concludeva con la condanna della conducente, che era stata chiamata in corso di causa, e della compagnia assicuratrice dell'automobile. La sentenza veniva appellata dalla predetta società assicuratrice e presentavano appello anche gli attori che avevano introdotto la causa. In particolare Il ferito chiedeva il riconoscimento della perdita della capacità lavorativa e il risarcimento del danno da uccisione.
La Corte d'Appello, che aveva riunito i processi, rigettava le istanze del ferito; in particolare negava che il padre avesse acquisito dalla figlia- deceduta a seguito dell'incidente- il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale per sopravvivenza: secondo il Giudice di seconda istanza la sopravvivenza di tre giorni era troppo breve per il riconoscimento di tale diritto. Veniva così presentato ricorso per cassazione in cui si censurava una "mancata risposta" sul danno non patrimoniale da uccisione. La Corte di Cassazione anzitutto affronta il tema del danno biologico: se da un lato ritiene infondata la censura sulla perdita della capacità lavorativa, riconosce l'esistenza del danno biologico quale compromissione dell'integrità psicofisica. Statuisce sul punto che il danno biologico in sé non necessariamente porta ad un'invalidità al lavoro mentre invece è logicamente vero il contrario. La Corte fa una premessa per quanto riguarda il danno non patrimoniale da uccisione: al di là del panorama linguistico con cui esso è stato declinato, i Giudici Supremi osservano che la vittima può soffrire di un danno alla salute temporaneo (avente base medico-legale) e l'agonia per la morte imminente (non avente base medico-legale).
La prima tipologia di danno va misurata in giorni od in frazioni di esso -sebbene poi la Corte aggiunge che il lasso di tempo "apprezzabile" è quello superiore alle ventiquattro ore- ed è incompatibile con il danno derivante dall'invalidità permanente; essa difatti si parametra sulla limitazione delle attività che il soggetto ha dovuto subire in quei giorni. La seconda tipologia riunisce in sé il marasma linguistico (danno tanatologico, danno catastrofale ecc.) e si calcola necessariamente in frazioni di tempo poiché rappresenta l'insieme di moti dell'animo con riferimento alla consapevolezza della morte imminente. La Corte così cassa la sentenza sul punto stabilendo il principio di diritto secondo cui la vittima che non muore sul colpo trasmette agli eredi le suddette due tipologie di danno.