Il 21 settembre 1990 veniva ucciso per mano mafiosa, lungo la strada che congiunge Canicattì ad Agrigento, Rosario Livatino, magistrato di appena 37 anni. Lavorò come sostituto procuratore al Tribunale di Agrigento, dove si occupò delle più delicate indagini di mafia del territorio agrigentino e su altre indagini come quella che poi venne chiamata la Tangentopoli siciliana. Prestò servizio presso il Tribunale di Agrigento quale giudice a latere della sezione misure di prevenzione. Fu un magistrato dall'impegno professionale straordinario, di lui prima della sua uccisione pochi ne avevano sentito parlare., rari infatti erano stati i suoi interventi pubblici, preferiva lavorare sodo , in silenzio ma con molta efficacia. Fu talmente efficace il suo impegno nel contrastare i mafiosi che gli stessi ne decretarono l'uccisione.
Secondo quanto hanno scritto i giudici nella sentenza che ha pronunciato la condanna degli esecutori e dei mandanti del suo omicidio, il giudice Livatino fu ucciso dalla "stidda" agrigentina perchè «perseguiva le cosche mafiose impedendone l'attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l'espansione della mafia».
Era fermamente convinto che l'indipendenza del giudice, dovesse risiedere non solo nella propria coscienza ma anche " nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tutto ché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l'indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività ". In ossequio a queste convinzioni conduceva la sua vita, in maniera riservata e con assoluta sobrietà, nella casa che condivideva con i genitori a Canicattì.
Aveva una profonda e coerente fede cristiana, tanto è vero che sulle sue agende, gli inquirenti che indagavano sulla sua morte, trovarono una sigla misteriosa "s.t.d." che il cui significato era sub tutela dei, cioè nelle mani di Dio.
Così scriveva a proposito del difficile compito a cui era chiamato, quale giudice, quando doveva adottare una scelta:
«Entrambi, il giudice credente e non credente, devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà ed autonomia. E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società – che una somma così paurosamente grande di poteri gli affida – disposto e proteso a comprendere l'uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione». (Rosario Livatino - Fede e diritto del 1986)
Ripercorriamo adesso la biografia del giudice.
Rosario Livatino nacque a Canicattì nel 1952, figlio di Vincenzo Livatino (laureato in legge ed impiegato dell'esattoria comunale) e di Rosalia Corbo. Conseguita la maturità presso il locale liceo classico Ugo Foscolo, dove si impegnò nell'Azione Cattolica, nel 1971 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza di Palermo presso la quale si laureò cum laude nel 1975. Tra il 1977 e il 1978 prestò servizio come vicedirettore in prova presso l'Ufficio del Registro di Agrigento. Sempre nel 1978, dopo essersi classificato tra i primi in graduatoria nel concorso per uditore giudiziario, entrò in magistratura presso il Tribunale di Caltanissetta.
Nel 1979 diventò sostituto procuratore presso il tribunale di Agrigento e ricoprì la carica fino al 1989, quando assunse il ruolo di giudice a latere.
Venne ucciso il 21 settembre del 1990 sulla SS 640 mentre si recava, senza scorta, in tribunale, per mano di quattro sicari assoldati dalla Stidda agrigentina, organizzazione mafiosa in contrasto con Cosa nostra. Era a bordo della sua vettura, una vecchia Ford Fiesta color amaranto, quando fu speronato dall'auto dei killer. Tentò disperatamente una fuga a piedi attraverso i campi limitrofi ma, già ferito da un colpo ad una spalla, fu raggiunto dopo poche decine di metri e freddato a colpi di pistola. Del delitto fu testimone oculare Pietro Nava, sulla base delle cui dichiarazioni furono individuati gli esecutori dell'omicidio.
Nella sua attività si era occupato di quella che sarebbe esplosa come la Tangentopoli siciliana e aveva messo a segno numerosi colpi nei confronti della mafia, attraverso lo strumento della confisca dei beni.
Otto mesi dopo la morte del giudice, l'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga definì «giudici ragazzini» una serie di magistrati neofiti impegnati nella lotta alla mafia:
«Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l'azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno...? Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un'autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l'amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta.» |
Dodici anni dopo l'assassinio, in una lettera aperta pubblicata dal Giornale di Sicilia e indirizzata ai genitori del giudice, Cossiga smentì che quelle affermazioni dispregiative fossero riferite a Rosario Livatino, che definì invece "eroe" e "santo".[2] Papa Giovanni Paolo II lo definì invece «martire della giustizia e indirettamente della fede».
La sua figura è ricordata nel film di Alessandro Di Robilant Il giudice ragazzino, uscito nel 1994; è invece del 1992 il libro omonimo, scritto da Nando dalla Chiesa, che portò all'erronea attribuzione del nomignolo al magistrato ucciso. Nel 2006 è stato realizzato il documentario La luce verticale per promuoverne la causa di beatificazione. Nel 2016 il documentario Il Giudice di Canicattì, di Davide Lorenzano con la voce narrante di Giulio Scarpati, trasmesso il 12 dicembre 2017 su Rai Storia[4], esplora la personalità del magistrato, rivelando immagini inedite e nuovi episodi di vita.
E' venerato come beato e martire della Chiesa cattolica.