Con la pronuncia n. 12998 dello scorso 15 maggio, la I sezione civile della Corte di Cassazione ha riformato una sentenza di merito che aveva ingiustamente disconosciuto ad un uomo il diritto di avvalersi dell'amministrazione di sostegno per far valere, mediante la persona designata, la sua granitica ed irrevocabile volontà, in quanto testimone di Geova, di non essere sottoposto trasfusioni a base di emoderivati, specificando che la designazione anticipata – oltre ad individuare il soggetto cui, ove si presenti la necessità, deve rivolgersi il provvedimento di nomina del giudice tutelare –ha anche la finalità di poter impartire delle direttive, quando si è nella pienezza delle proprie facoltà cognitive e volitive, sulle decisioni sanitarie o terapeutiche da far assumere all'amministratore di sostegno designato.
Il caso sottoposto all'attenzione della Corte prende avvio da un ricorso presentato da una moglie affinché venisse nominata, a norma degli artt. e seguenti 404 c.c., amministratrice di sostegno di suo marito, essendo già stata designata nella funzione dal marito con scrittura privata autenticata.
Il giudice tutelare di Savona respingeva il ricorso, ritenendo che l'uomo fosse, allo stato, pienamente capace d'intendere e di volere.
La decisione veniva confermata dalla Corte d'appello di Genova che, nel ribadire la valutazione di piena capacità del marito, osservava come il diritto di rifiutare determinate terapie fosse al di fuori dell'ambito d'applicazione dell'istituto dell'amministrazione di sostegno, trattandosi di diritto azionabile autonomamente in giudizio e non tutelabile, in via indiretta, mediante l'istituto in questione.
I coniugi, ricorrendo in Cassazione, censuravano la sentenza d'appello per non aver valutato correttamente i presupposti della nomina dell'amministratore di sostegno; in particolare, si dolevano perché si non era tenuto conto del fatto che la patologia diagnosticata all'uomo determinava la sua impossibilità di comunicare la propria decisione di non sottoporsi alle trasfusioni di sangue nel corso delle crisi emorragiche da cui era colpito, trasfusioni ritenute necessarie per la cura.
In secondo luogo i ricorrenti lamentavano che la Corte d'appello, reputando che il diritto di rifiutare determinate terapie fosse al di fuori dell'ambito di applicazione dell'istituto dell'amministrazione di sostegno, si sarebbe posta in palese contrasto con i principi costituzionali, con quelli della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e della Convenzione sui Diritti Umani e la Biomedicina.
La Cassazione condivide le censure rilevate.
Gli Ermellini evidenziano che in tema di attività medico-sanitaria, il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente non incontra un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita. Difatti, a fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c'è il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale; allorché il rifiuto abbia tali connotati non c'è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico, in quanto quel rifiuto esprime un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale; ciò assume connotati ancora più forti, degni di tutela e garanzia, laddove il rifiuto del trattamento sanitario è motivato dall'adesione ad una fede religiosa il cui libero esercizio è sancito dall'art. 19 Cost..
Richiamate le fonti e la giurisprudenza (nazionale, europea e convenzionale) – che inequivocabilmente impongono di tener conto, a proposito di un intervento medico, dei desideri del paziente non in grado di esprimere la sua volontà – la sentenza in commento rileva come sia erronea
l'affermazione della Corte d'appello, secondo cui l'amministrazione di sostegno non può essere funzionale alla tutela del diritto soggettivo a rifiutare determinati trattamenti terapeutici, trattandosi di un diritto azionabile autonomamente e direttamente in giudizio, e non tutelabile, in via indiretta, mediante tale forma di protezione.
Al contrario, la Corte specifica che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 406 e 408 c.c., attraverso la scelta dell'amministratore da parte del beneficiario è possibile indicare che il designato amministratore di sostegno esprima, in caso di impossibilità dell'interessato, il rifiuto di quest'ultimo di determinate terapie: più nel dettaglio, la designazione anticipata – oltre ad individuare il soggetto cui, ove si presenti la necessità, deve rivolgersi il provvedimento di nomina del giudice tutelare – ha anche la finalità di poter impartire delle direttive, quando si è nella pienezza delle proprie facoltà cognitive e volitive, sulle decisioni sanitarie o terapeutiche da far assumere all'amministratore di sostegno designato.
Con specifico riferimento al caso concreto, il marito era portatore di una gravissima patologia comportante emorragie continue, con conseguente perdita della coscienza e gravi difficoltà nell'eloquio; proprio a causa della propria malattia, l'uomo aveva, sulla base dell'art. 408, primo comma, c.c., designato la moglie come amministratrice di sostegno al fine precipuo di esprimere, in caso di impossibilità, il dissenso alla somministrazione di trasfusioni a base di emoderivati.
La volontà dell'uomo, da attuarsi tramite il diniego alle trasfusioni ematiche espresso dall'amministratore di sostegno da lui stesso nominato, è del tutto conforme ad un canone ermeneutico costituzionalmente orientato - riguardo alle esigenze sottese agli artt. 2, 19 e 32 della Costituzione - ed in linea con l'orientamento della giurisprudenza della CEDU.
In conclusione la Cassazione accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di Appello di Genova in diversa composizione.