Di Redazione su Lunedì, 24 Luglio 2017
Categoria: Legalità

Tano Grasso e Mafia Capitale: che vergogna festeggiare con cannoli Cuffaro, ma anche con una sentenza sbagliata non si spari sullo Stato

Sbagliato parlare di cecità dello Stato, non si può non ricordare come da Milano in giù nel centro nord del Paese siano state decine e decine le sentenze di condanna contro la mafia

di Tano Grasso*
Vi ricordate i cannoli di Totò Cuffaro? Le immagini di festa con la "guantiera" nelle mani dell´allora presidente della Regione Sicilia attorniato dai suoi gioiosi fedelissimi a Palazzo d´Orleans? Cuffaro era da poco stato condannato in primo grado ad una pena di cinque anni per favoreggiamento semplice in una sentenza che aveva escluso l´aggravante mafiosa (in appello gli anni salgono a sette e ritorna l´aggravante di aver favorito la mafia), quindi, una ragione per festeggiare... La stessa cosa, a leggere alcuni commenti alla sentenza di giovedì su Mafia capitale, sembra stia accadendo a Roma. Da giovedì si succedono articoli che bollano l´intera indagine come "una bufala da romanzetto criminale" evocano "lo scoppolone", calendarizzano "il giorno della cilecca".
Nel commento scritto a caldo nel primo pomeriggio di giovedì ho precisato che "in una sentenza non ci sono mai vincitori e non c´è mai nulla da festeggiare, qualunque sia l´esito"; e bene ha fatto il procuratore Pignatone a dichiarare di rifuggire "da una visione agonistica dei processi". Mi permetto di aggiungere che non c´è alcuna sacralità in una sentenza: anche quando è emessa dal più probo, dal più imparziale, dal più preparato tra i giudici, offre sempre un´approssimazione alla verità. Questo è il costo da pagare con la nostra responsabilità personale, senza perderci nel più radicale scetticismo, se vogliamo convivere con le garanzie di uno Stato democratico. Quindi, è proprio di uno Stato di diritto la possibilità di non condividere una sentenza e di criticarla, ovviamente nel rispetto delle parti, senza alcuna tentazione di delegittimazione (un deputato del centro destra ha affermato che la sentenza è "l´equivalente di una mozione di sfiducia verso la procura di Roma").

Se, quando nel nostro Paese si parla di cose di giustizia si raggiungono livelli di assuefatta patologia, ciò dipende prevalentemente da un grande limite della politica italiana, tanto a destra come a sinistra. Ovvero l´incapacità (o la non-volontà) di esprimere giudizi politici. Quando si amministra o si governa la cosa pubblica c´è un livello di valutazione che non può mai né appiattirsi né dipendere dalle sentenze giudiziarie. Ad esempio, per restare al nostro caso, il dato politicamente gravissimo è come le precedenti due amministrazioni capitoline non abbiano saputo avvertire per tempo tutti quei segnali cha hanno portato alle pene esemplari di giovedì. Il radicalismo giudiziario, fra l´altro, è figlio dell´incapacità dei soggetti politici di esercitare una autonoma valutazione senza nascondersi dietro l´ipocrita teoria che "si è innocenti sino a sentenza definitiva": sì è vero, come è vero che se un amministratore agisce con opacità, anche di fronte ad una sentenza di assoluzione, non può fare l´assessore. A proposito, una domanda ai dirigenti del PD: che fine ha fatto l´inchiesta sui circoli romani realizzata dall´ex ministro Fabrizio Barca?

Nell´articolo scritto giovedì (e chiedo scusa per la nuova citazione) ho concluso apprezzando il lavoro di giornalismo investigativo dell´Espresso. Prendendo stamattina in mano il settimanale sono rimasto assai perplesso per la copertina ("Stato cecato") e per l´editoriale del suo direttore. Non condivido quando scrive: "...lo ´Stato cecato´ ha inflitto oltre 280 anni carcere..." e denuncia "un limite culturale dello Stato". Non si può far discendere dal giudizio su una sentenza un giudizio tranchant sulla "cecità" dello Stato. Non per altro, perché non è vero. Non si può esibire una sentenza che legittimamente non si condivide come un passo indietro (o un passo non-in-avanti) nella lotta alle mafie. Me ne guardo bene dal difendere tout court lo Stato che è un´entità complessa con la convergenza di un´infinità di soggetti: negli ultimi anni i governi non hanno particolarmente brillato in questo campo; ma non si può non ricordare come da Milano in giù nel centro nord del Paese siano state decine e decine le sentenze di condanna contro la mafia.

La sentenza dice che quegli imputati non facevano parte di un´associazione mafiosa, non che la mafia a Roma non esiste (gli esegeti ne forzano la lettura). La mafia c´è e con essa, ormai con tanto ritardo, bisogna fare i conti. La sentenza, inoltre, appartiene alla fisiologia del processo penale la cui dinamica è tutt´altro che conclusa. E non può portare alla generalizzazione della "cecità".

Per fortuna, la metafora di Sciascia sulla linea della palma è stata introiettata in una larga parte di opinione pubblica e di istituzioni impegnate sul fronte del contrasto. C´è nel Giorno della civetta un´altra efficace metafora usata da Sciascia e riferita al capitano Bellodi: "[il capitano] l´autorità di cui era investito considerava come il chirurgo considera il bisturi: uno strumento da usare con precauzione, con precisione, con sicurezza". Ai ragazzi che saranno magistrati, avvocati, poliziotti, provo a spiegare quanto sia delicata la professione che li vedrà impegnati: il bene più prezioso per un essere umano è la sua libertà con il suo onore; la loro professione un giorno dovrà essere esercitata con la stessa attenzione con cui un chirurgo usa il bisturi. Credo che ciò valga anche per chi esercita la nobile professione del giornalista, tanto più in tempi così irragionevoli come quelli che viviamo.
*Tiscali 23 luglio