Con la sentenza n. 23366 dello scorso 15 giugno, la V sezione penale della Corte di Cassazione, ha confermato la condanna per stalking inflitta ad un uomo per adottato nei confronti dell'ex compagna una condotta petulante, molesta e asfissiante, costringendo la donna a cambiare le abitudini di vita e a portarla ad uno stato di ansia generalizzato.
Respingendo le difese dell'imputato secondo cui non era stato provato l'evento di reato, la Corte ha precisato che "ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori, trattandosi di delitto che prevede eventi alternativi, la realizzazione di ognuno di essi è idonea ad integrarlo e la prova dell'evento non può che essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico, atteso che non può scandagliarsi diversamente "il foro interno" della vittima. Assumono allora importanza, ai fini della prova, sia le dichiarazioni della stessa vittima del reato, sia i comportamenti conseguenti e successivi alla condotta posti in essere dall'agente e anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata.".
Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dall'esercizio dell'azione penale a carico di un uomo, accusato per il delitto di atti persecutori ai danni dell'ex fidanzata, per aver messo in atto una condotta petulante, molesta, asfissiante, anche connotata da angherie, costringendo la donna a cambiare le abitudini di vita e portandola ad uno stato di ansia generalizzato, culminato nella scelta della persona offesa di chiudersi nell'auto per sfuggire alle minacce dell'ex compagno, armato di un coltello.
Per tali fatti, sia il Tribunale che la Corte di Appello di Torino condannavano l'uomo alla pena ritenuta di giustizia.
I giudici di merito individuavano la causa scatenante della condotta dell'imputato nella asfissiante gelosia dell'uomo, e nel desiderio di possesso manifestatosi attraverso condotte ossessive e minacce anche di morte fino alla lite con il nuovo compagno della donna.
Ricorrendo in Cassazione, la difesa dell'imputato deduceva vizi della motivazione nella affermazione di responsabilità.
Secondo la difesa del ricorrente, la sentenza impugnata non aveva adeguatamente scrutinato l'evento del reato, fornendo una motivazione contraddittoria, laddove aveva individuato nella persona offesa la vittima di atti persecutori, pur dando atto della reciproca conflittualità e gelosia.
La Cassazione non condivide le doglianze formulate.
La Corte ricorda che, ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori, trattandosi di delitto che prevede eventi alternativi, la realizzazione di ognuno di essi è idonea ad integrarlo, e che la prova dell'evento non può che essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico, atteso che non può scandagliarsi diversamente "il foro interno" della vittima. Assumono allora importanza, ai fini della prova, sia le dichiarazioni della stessa vittima del reato, sia i comportamenti conseguenti e successivi alla condotta posti in essere dall'agente e anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata.
Con specifico riferimento al caso di specie, gli Ermellini evidenziano come il ricorso – nel proporre una diversa ricostruzione in fatto della vicenda criminosa – non si confronti con la motivazione della sentenza impugnata, omettendo di considerarne il percorso argomentativo e motivazionale e dimenticando che in sede di legittimità è precluso il sindacato della ricostruzione dei fatti compiuta dai giudici di merito, in assenza di vizi di manifesta illogicità della motivazione ovvero travisamento della prova.
Con motivazione incensurabile, difatti, i giudici di appello hanno accertato la sussistenza dell'evento del reato, ponendo in luce lo stato di ansia, la preoccupazione, la condizione di prostrazione nel quale era caduta la persona offesa a seguito della condotta petulante, molesta, asfissiante dell'imputato, anche connotata da angherie, come quando la donna si vide costretta a chiudersi nell'auto per sfuggire alle minacce del ricorrente, armato di un coltello. D'altro canto, la Corte di appello ha anche dato atto del cambiamento di abitudini della persona offesa, in tal senso venendo in rilievo il cambio del numero di utenza cellulare, il trasferimento presso amici e parenti e finanche la perdita del lavoro, quale conseguenza della condotta dell'imputato che impediva alla persona offesa di andare a lavorare.
In conclusione, la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3000,00 in favore della Cassa delle Ammende.