Con la sentenza n. 26182 dello scorso 31 maggio, la V sezione penale della Corte di Cassazione, ha confermato la condanna per stalking inflitta ad un marito per aver insistentemente inviato all'ex moglie messaggi, telefonate e lettere, con violazione di domicilio, ritenendo sussistente l'intento doloso anche se le condotte contestate non erano preordinate a creare uno stato di ansia nella donna, bensì solo a riconquistarla.
La Cassazione ha precisato che "nel delitto di atti persecutori, che ha natura di reato abituale di evento, l'elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell'abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte - elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa - potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l'occasione".
Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dall'esercizio dell'azione penale a carico di un uomo, accusato per il delitto di atti persecutori aggravato ai danni dell'ex coniuge, per aver più volte inviato alla donna messaggi, telefonate, lettere, con violazione di domicilio, anche in danno della vicina di casa.
Per tali fatti, sia il Tribunale che la Corte di Appello di Torino condannavano l'uomo alla pena ritenuta di giustizia.
I giudici di merito rilevavano come, in conseguenza delle condotte persecutorie messe in atto dall'imputato, era sorto nella persona offesa un perdurante stato di paura e ansia, tale da costringerla ad abbandonare il proprio domicilio, rifugiandosi in un luogo tenuto nascosto anche alle forze di polizia.
Ricorrendo in Cassazione, la difesa dell'imputato deduceva violazione di legge in ordine all'affermazione della penale responsabilità in relazione al delitto di stalking.
Secondo la difesa del ricorrente, mancava la prova che i comportamenti contestati avessero determinato nella persona offesa uno degli eventi previsti dalla norma incriminatrice, difettando altresì nell'uomo il necessario intento doloso.
La Cassazione non condivide le doglianze formulate.
La Corte ricorda, quanto all'elemento soggettivo del reato contestato, che nel delitto di atti persecutori, che ha natura di reato abituale di evento, l'elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell'abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte - elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa - potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l'occasione.
Con specifico riferimento al caso di specie, gli Ermellini evidenziano come il ricorso – nel proporre una diversa ricostruzione in fatto della vicenda criminosa – non si confronti con la motivazione della sentenza impugnata, omettendo di considerarne il percorso argomentativo e motivazionale e dimenticando che in sede di legittimità è precluso il sindacato della ricostruzione dei fatti compiuta dai giudici di merito, in assenza di vizi di manifesta illogicità della motivazione ovvero travisamento della prova.
Con motivazione incensurabile, difatti, i giudici di appello hanno accertato la sussistenza del dolo generico in capo al ricorrente, ritenendo come dal tenore dei messaggi acquisiti, numerosissimi e ripetitivi, recriminatori nei confronti della persona offesa la quale chiedeva di essere lasciata in pace, emergesse la piena consapevolezza della condotta posta in essere dall'ex marito.
La Corte di appello ha, inoltre, indicato chiaramente le condotte tenute dall'imputato, aggiungendo che le stesse avevano procurato l'evento che integra il reato, ovvero crisi di ansia e mutamento del domicilio tenuto segreto anche agli inquirenti.
La sentenza impugnata ha fatto, quindi, buon governo dei principi giurisprudenziali nella qualificazione della fattispecie di atti persecutori, evidenziando come la donna fosse stata oggetto di una vera e propria "persecuzione" generatrice di ansia e paura.
In conclusione, la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3000,00 in favore della Cassa delle Ammende.