Primo Michele Levi (Torino, 31 luglio 1919 – Torino, 11 aprile1987) è stato uno scrittore, partigiano e chimico italiano, autore di racconti, memorie, poesie, saggi e romanzi.
Partigiano antifascista, il 13 dicembre 1943 venne arrestato dai fascisti in Valle d'Aosta, venendo prima mandato in un campo di raccolta a Fossoli e, nel febbraio dell'anno successivo, deportato nel campo di concentramento di Auschwitz in quanto ebreo. Scampato al lager, tornò avventurosamente in Italia, dove si dedicò con impegno al compito di raccontare le atrocità viste e subite.
La sua opera più famosa, oltre che quella d'esordio, di genere memorialistico, Se questo è un uomo, racconta le sue terribili esperienze nel campo di sterminio nazista ed è considerato un classico della letteratura mondiale. Laureato in chimica, in alcune delle sue opere appaiono riferimenti diretti e indiretti a questa branca della scienza.
Dopo l'8 settembre 1943 si rifugiò in montagna, unendosi a un nucleo partigiano operante in Val d'Aosta. Il periodo di militanza fra i partigiani del Col de Joux è stato quello che Levi stesso ha giudicato un'esperienza di giovani ben intenzionati, ma sprovveduti, privi di armi e di solidi contatti come Levi afferma in una lettera a Paolo Momigliano Levi. La sua esperienza partigiana è stata oggetto di due saggi usciti a pochi mesi di distanza nel 2013 e di una dura polemica giornalistica. Poco dopo, il 13 dicembre 1943, venne arrestato dalla milizia fascista nel villaggio di Amay, sul versante verso Saint-Vincent del Col de Joux (tra Saint-Vincent e Brusson). Interrogato, preferì dichiararsi ebreo piuttosto che partigiano e per questo fu trasferito nel campo di Fossoli, presso Carpi, in provincia di Modena.
Il 22 febbraio 1944, Levi e altri 650 ebrei, donne e uomini, vennero stipati su un treno merci (oltre 50 persone in ogni vagone) e destinati al campo di concentramento di Auschwitz in Polonia. Levi fu qui registrato (con il numero 174.517) e subito condotto al campo di Buna-Monowitz, allora conosciuto come Auschwitz III, dove rimase fino alla liberazione da parte dell'Armata Rossa, avvenuta il 27 gennaio 1945. Fu uno dei venti sopravvissuti dei 650 ebrei italiani arrivati con lui al campo.
Levi attribuì la propria sopravvivenza a una serie di incontri e coincidenze fortunate. Innanzitutto, leggendo pubblicazioni scientifiche durante i suoi studi, aveva appreso un tedesco elementare. Di rilevante importanza fu parimenti l'incontro con Lorenzo Perrone, un civile occupato come muratore, il quale, esponendosi a un grande rischio personale, gli fece avere regolarmente del cibo. In un secondo momento, verso la fine del 1944, venne esaminato da una commissione di selezione, incaricata di reclutare chimici per la Buna, una fabbrica per la produzione di gomma sintetica di proprietà del colosso chimico tedesco IG Farben.
Insieme ad altri due prigionieri (entrambi poi deceduti durante la marcia di evacuazione) ottenne, superato l'esame, un posto presso il laboratorio della Buna, dove svolse mansioni meno faticose ed ebbe la possibilità di contrabbandare materiale con il quale effettuare transazioni per ottenere cibo. Nel far ciò si avvalse della collaborazione di un altro prigioniero al quale fu molto legato, Alberto Dalla Volta, anch'egli italiano. Infine, nel gennaio del 1945, immediatamente prima della liberazione del campo da parte dell'Armata Rossa, si ammalò di scarlattina e venne ricoverato nel Ka-be (dal tedesco Krankenbau, in italiano "infermeria del campo"), scampando così fortunosamente alla marcia di evacuazione da Auschwitz, nella quale sarebbe morto Alberto.
Il viaggio di ritorno in Italia, narrato nel libro di memorie La tregua, sarà lungo e travagliato. Si protrarrà fino a ottobre, attraverso Polonia, Bielorussia, Ucraina, Romania, Ungheria, Germania e Austria.
Nel 1978 pubblicò La chiave a stella. Nel 1982 tornò al tema della Seconda guerra mondiale, raccontando in Se non ora, quando?, le avventure picaresche di un gruppo di partigiani ebrei di origini polacche e russe che tendono imboscate ai tedeschi sul fronte orientale e giungono ad attraversare i territori del Reich sconfitto, sino a Milano, da dove alcuni prenderanno la via della Palestina per partecipare alla costruzione dello Stato di Israele. Il libro vinse nel 1982 il Premio Campiello e il Premio Viareggio.
Nella raccolta di saggi I sommersi e i salvati (1986), prendendo spunto dai molti dialoghi con i giovani, in incontri pubblici e scambi epistolari, tornò per l'ultima volta sul tema dell'Olocausto, cercando di analizzare con distacco la sua esperienza, chiedendosi perché le persone si siano comportate in quel modo ad Auschwitz e perché alcuni siano sopravvissuti e altri no. In particolare estese la sua analisi alla "zona grigia", come egli la definì, rappresentata da tutti coloro che a vario titolo e con varie mansioni avevano partecipato al progetto concentrazionario nazista.
«È ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema infero, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada, le assimila a sé, e ciò tanto piú quanto piú esse sono disponibili, bianche, prive di un'ossatura politica o morale. Da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori, e di farlo con mano piú leggera, e con spirito meno torbido, di quanto non si sia fatto ad esempio in alcuni film. Solo una retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana [...]. |
Il passo seguente tratta il problema della vergogna provata appena dopo la liberazione del campo di Auschwitz da Levi e dimostra come l'essere liberati non sempre sia un fatto positivo. Inoltre spiega il perché non sempre gli scampati vengano ringraziati come ci si aspetterebbe.
A mio avviso, il senso di vergogna o di colpa che coincideva con la riacquistata libertà era fortemente composito: conteneva in sé elementi diversi, ed in proporzioni diverse per ogni singolo individuo. Va ricordato che ognuno di noi, sia oggettivamente, sia soggettivamente, ha vissuto il Lager a suo modo.
All'uscita dal buio, si soffriva per la riacquistata consapevolezza di essere stati menomati. Non per volontà né per ignavia né per colpa, avevamo tuttavia vissuto per mesi o anni ad un livello animalesco: le nostre giornate erano state ingombrate dall'alba alla notte dalla fame, dalla fatica, dal freddo, dalla paura, e lo spazio di riflettere, per ragionare, per provare affetti, era annullato. Avevamo sopportato la sporcizia, la promiscuità e la destituzione soffrendone assai meno di quanto ne avremmo sofferto nella vita normale, perché il nostro metro morale era mutato. Inoltre, tutti avevamo rubato: alle cucine, alla fabbrica, al campo, insomma <>, alla controparte, ma sempre furto era; alcuni (pochi) erano discesi fino a rubare il pane al proprio compagno. Avevamo dimenticato non solo il nostro paese e la nostra cultura, ma la famiglia, il passato, il futuro che ci eravamo rappresentato, perché, come animali, eravamo ristretti al momento presente. Da questa condizione di appiattimento eravamo esciti solo a rari intervalli, nelle pochissime domeniche di riposo, nei minuti fugaci prima di cadere nel sonno, durante la furia di bombardamenti aerei, ma erano uscite dolorose, proprio perché ci davano occasione dal di fuori la nostra diminuzione.
(Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi Tascabili, p.57)
[...] Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? Ed in specie, di un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere di te? Non lo puoi escludere: ti esamini, passi in rassegne i tuoi ricordi, sperando di ritrovarli tutti, e che nessuno di loro si sia mascherato o travestito; no, non trovi trasgressioni palesi, non hai soppiantato nessuno, non hai picchiato (ma ne avresti avuto la forza?), non hai accettato cariche (ma non ti sono state offerte…), non hai rubato il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere. E' solo una supposizione, anzi, l'ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di suo fratello, che ognuno di noi (ma questa volta dico "noi" in un senso molto ampio, anzi universale) abbia soppiantato il suo prossimo, e viva in vece sua. E' una supposizione, ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride.
(Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1986, p. 62)
[…] E c'è un'altra vergogna più vasta, la vergogna del mondo. E' stato detto memorabilmente da John Donne, e citato innumerevoli volte, a proposito e non, che "nessun uomo è un'isola", e che ogni campana di morte suona per ognuno. Eppure c'è chi davanti alla colpa altrui, o alla propria, volge le spalle, così da non vederla e non sentirsi toccato: così hanno fatto la maggior parte dei tedeschi nei dodici anni hitleriani, nell'illusione che il non vedere fosse un non sapere, e che il non sapere li alleviasse dalla loro quota di complicità o connivenza. Ma a noi lo schermo dell'ignoranza voluta, il "partial shelter" di T.S.Elliot, è stato negato: non abbiamo potuto non vedere. Il mare di dolore, passato e presente, ci circondava, ed il suo livello è salito di anno in anno fino quasi a sommergerci. Era inutile chiudere gli occhi o volgergli le spalle, perché era tutto intorno, in ogni direzione fino all'orizzonte. Non ci era possibile, e non abbiamo voluto essere isole; i giusti fra noi, non più né meno numerosi che in qualsiasi altro gruppo umano, hanno provato rimorso, vergogna, dolore insomma, per la colpa che altri e non loro avevano commessa, ed in cui si sono sentiti coinvolti, perché sentivano che questo era avvenuto intorno a loro, ed in loro presenza, e in loro, era irrevocabile. Non avrebbe potuto essere lavato mai più; avrebbe dimostrato che l'uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore; e che il dolore è la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare.
(Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1986, pp. 66 - 67)